STORIE Mike Marić Se respiro, posso La mia storia e le mie tecniche per avere più controllo sul corpo e sulla vita Copyright © 2023 Roi Edizioni s.r.l. Galleria del Commercio 6, 62100 Macerata Via Giacomo Leopardi 19, 20123 Milano email: info@roiedizioni.it sito: www.roiedizioni.it Design copertina: Margherita La Noce Foto copertina: Y-40 (per gentile concessione dell’autore) Foto autore: Fabio Milani Edizione digitale: aprile 2023 ISBN 978-88-3620-169-3 Indice Come un delfino Un po’ di me Un tuffo nella mia famiglia Campione della mia vita L’ABC del campione Il cavaliere oscuro I Fantastici 6: allenamento La scelta Valore ai valori La svolta Giù la maschera Oltre ogni respiro Apnea, Acqua, Amore, Agonismo Via la zavorra 120 metri Marginal Gains Senza respiro I Fantastici 6: saper recuperare I Fantastici 6: nutrizione Aria Ossigeno: il principale nutriente I fondamentali dell’alimentazione Colazione da campione Piatto unico Mangiare carne per diventare forti Regola da medaglia d’oro Cibo e stress Frutta e verdura: l’arcobaleno del benessere Il vero campione si riconosce a tavola L’uomo delfino I Fantastici 6: nutraceutica Ho capito I Fantastici 6: questione di testa Motivazione o ansia Il viaggio nelle paure Trova te stesso I Fantastici 6: il respiro Il segreto dei grandi campioni Se respiro, posso Come un delfino Una frase che mi ripeto spesso: “Sii come un delfino, non aver paura del buio e della profondità, ma della luce che sfiora una vita superficiale.” La vita, sì. Incredibilmente bella, intensa, appassionante e a volte durissima, ci invita ogni giorno a evolvere. E, se lo vogliamo, ci permette di farlo. Anni fa non mi sarei mai sentito all’altezza di scrivere un libro, né pensavo di avere qualcosa da raccontare. Non credevo che quello che ho fatto e che sto facendo potesse essere utile agli altri. Avevo qualche problema di autostima, poi risolto. Oggi con questo libro vorrei raccontarmi ed esporre, attraverso le mie esperienze e competenze, la semplice, incrollabile verità che è sempre possibile migliorarsi traducendo ciò che ci succede nell’opportunità di prendere in mano la nostra vita, anche attraverso scelte difficili, errori e travagli. La più grande competizione è con noi stessi, nelle profondità delle nostre esistenze. Alla fine, però, si può diventare campioni della propria vita. Non sono il detentore di codici segreti, né di trucchi particolari; quindi, non vi fornirò un vademecum buono per ogni occasione. Il mio scopo è descrivermi per ciò che sono, per ciò che ho vissuto e soprattutto per ciò che oggi faccio con tutto l’impegno possibile. Mai come ora reputo fondamentale ritrovarsi come esseri umani e ripartire più forti di prima, forti di un equilibrio che negli ultimi anni è stato messo a dura prova. È fin troppo facile perdere la rotta, ed è per questo che vorrei riportare l’attenzione su ciò che siamo, sui fondamentali radicati nella vita, quelli che ci permettono di affrontare le intemperie della quotidianità per superarle e diventare più forti. Questo il mio punto di partenza, questo l’intento del libro. Tra vita, sport, emozioni, sfide, paure e ricerca, oggi lavoro con tanti campioni, ma ciò che ho imparato trova perfetta applicazione per tutti coloro che vogliono costruire un’esistenza piena, gratificante, a prescindere dal proprio contesto. Ognuno di noi ha il diritto di vivere da campione, e ognuno dovrebbe esserlo. Ma perché questo avvenga innanzitutto bisogna assumersi le proprie responsabilità, rispettando quei doveri che rappresentano il più delle volte un ostacolo percepito. Dal mio sport, l’apnea, una disciplina molto complessa nella sua essenzialità, e dal mio percorso medico decisamente insolito, ho tratto tutti quegli elementi di base che favoriscono la nostra evoluzione e una qualità di vita superiore. Vorrei condividerli con voi. Un po’ di me Ognuno di noi ha la propria storia, le proprie origini e il proprio percorso. Quanto a me, partiamo dal nome di origine americana, e dal cognome, che profuma poco d’Italia. E pensare che sono nato a Milano. Mia madre amava i quiz televisivi, che negli anni ’70 erano sinonimo di Mike Bongiorno. E così fu “Mike”. Del resto era tradizione nella famiglia Marić che i nomi cominciassero con la M, un’idea di mio padre e dei suoi fratelli e sorelle. Ancora oggi mi chiedo quali strani accordi avessero preso. Però mi fa piacere, mi dà un senso di coesione familiare (e poi firmare con la doppia M è comodo). Tra cugini e zii abbiamo Marta, Monica, Moira, Melania, Martina, Marco… mio fratello si chiama Massimiliano (in onore di Massimiliano Pani, figlio della cantante Mina). A scuola mi chiedevano spesso di fare il presentatore: vari siparietti, feste liceali o universitarie. Era la mia croce e mi ha procurato qualche grattacapo quando mi prendevano in giro a causa del nome straniero, che di per sé vuol dire “microfono”, e ricordava le scarpe Nike. Peggio ancora, negli anni ’80 erano pure uscite le Like, una sottomarca di bassa imitazione e pessima qualità. Alle elementari avrei tanto voluto cambiare nome, poi imparai a sfruttarlo per rendermi simpatico. Imitavo Mike Bongiorno nei modi, nelle movenze e nella voce, e così facendo scioglievo l’imbarazzo con le ragazze, strappando loro un sorriso: “E allora signorina quale busta sceglie, la uno, la due o la treee?” La storia del mio cognome è meno divertente. Un cognome che sa di “slavo” o ancor meglio di “jugoslavo”, un nomignolo spesso denigrante, che ha segnato la mia gioventù; a scuola ero considerato il figlio degli slavi e per sopraggiunta secondo alcuni insegnanti parlavo male l’italiano. Mi piacerebbe chiedere loro perché mi considerassero negato per la mia stessa lingua: sono di Milano, figlio di genitori italiani, con papà nato a Pola, Istria, Italia. Mia mamma, Paola, viene da Cervignano del Friuli. A causa della guerra, suo padre, che era un combattente, fuggì in Istria, terra italiana, a Rovigno e qui incontrò mio padre, nato in questo paese di mare, splendido e simile a Venezia. Sono entrambi del 1940, quando l’Istria era italiana e vi si parlava una sorta di slang veneto. Il cognome di papà era Mari ma dopo il 1947, quando con la firma del Trattato di Parigi veniva assegnata gran parte dell’Istria alla Jugoslavia, mutò in Marić. Il trattato prevedeva per chi voleva mantenere la cittadinanza italiana l’abbandono immediato della propria terra. Il padre di mio padre era un semplice e modesto meccanico, riparava i camion che trasportavano la bauxite. Con una famiglia decisamente numerosa, preferì restare nella sua terra. Così i nonni non si mossero da Rovigno e divennero cittadini jugoslavi, venne loro cambiato il cognome e furono costretti a imparare una nuova lingua. Se chiudo gli occhi riesco a sentire la voce tremante di mio nonno e di papà ripetermi: “È stato bruttissimo, mi sentivo straniero a casa mia.” Tante persone hanno subito queste umiliazioni, obbligati a lasciare la loro terra da esuli istriani o sottomessi a nuove regole con la coercizione. Chiedo scusa se vi tedio con la storia dei miei cari, ma sono fermamente convinto che tutti noi abbiamo ricevuto un imprinting dettato dai valori trasmessi in famiglia. Posso affermare con orgoglio che la mia è stata sempre molto unita, soprattutto nelle vicissitudini e nei cambiamenti, soprattutto quelli duri. La famiglia è il punto nodale della mia esistenza: un punto fermo, stabile, deciso, cui sono eternamente grato e che nella vita mi ha profondamente aiutato. I miei familiari mi hanno spronato a tirare fuori il meglio di me, a non dare mai niente per scontato, ad apprezzare il pane che avevo per pranzo e a fare scelte anticonformiste. Avevo davanti a me l’esempio, ma un esempio forte: i miei genitori, la mia famiglia, la loro storia. In gioventù abbiamo tutti bisogno di modelli d’ispirazione. I bambini crescono perché vedono ed emulano. Ma poi bisogna trovare la propria identità, diventare quello che si è. La sfida allora è far fiorire ciò per cui si è nati, realizzarsi al di là dei modelli, al di là delle illusioni che ti vengono sbandierate sotto il naso. Ma la famiglia, se davvero unita da veri e sani valori, è sempre il punto di partenza e il primo riferimento. Un tuffo nella mia famiglia Per capire i nostri perché, il nostro carattere, la nostra vera identità dobbiamo fare un tuffo nelle radici della famiglia, ricordando perlomeno i nostri nonni. È un atto dovuto, perché il nostro presente raccoglie l’eredità (genetica e non) delle generazioni che ci hanno preceduto. Oggi più che mai percepisco quanto le forti influenze del mio nucleo familiare abbiano forgiato il mio vissuto. Mi hanno permesso di trovare la mia identità anche attraverso il distacco, ma sempre rimanendo legato all’integrità dei valori che i miei mi hanno trasmesso. Se faccio un salto nel passato, alla sola storia dei miei genitori, vedo il nesso che lega la loro storia e la mia. Era il 1980, avevo poco più di sette anni. Chiesi a mia mamma: “Ma perché papà è a casa?” La risposta fu: “Deve studiare e fare i compiti come li fai tu.” E questo si protrasse per cinque lunghi e difficili anni. Papà aveva quarant’anni, vivevamo a Lodi. Ci eravamo trasferiti definitivamente in Italia, perché lui non condivideva più i valori dello “pseudo-comunismo” della Jugoslavia, dove si era laureato in Odontoiatria. Dopo aver trovato occupazione a Milano, si era trasferito in provincia con tutta la famiglia. Le cose andavano bene, papà era un ottimo odontoiatra. D’altra parte si era laureato a Zagabria, in una delle migliori università europee dell’epoca, anni in cui l’odontoiatria in Italia non era una specializzazione a sé. A praticarla erano medici generici che, oltre al resto, facevano anche i dentisti. Non che fossero molto esperti, in Italia non si era mai visto il corso di laurea in Odontoiatria. Papà era molto competente, ma prima di tutto era agli occhi degli altri uno slavo, e questo non gli portò fortuna. Inutile spiegare che era italiano a tutti gli effetti, con il suo cognome, non poteva che essere uno dell’Est! Così, ancora una volta il peso di sentirsi “straniero a casa”, che aveva già vissuto, gli cadde sulle spalle. Quando poi ricevette una denuncia penale per esercizio abusivo della professione, perché era laureato in qualcosa che qui in Italia non c’era, ebbe inizio un calvario. Se voleva esercitare doveva laurearsi in Medicina e Chirurgia, gli serviva il famoso pezzo di carta. All’età di quarant’anni mio padre decise di iscriversi all’università. Di nuovo. Anni duri, impegnativi per tutta la famiglia: niente vacanze, feste di compleanno, niente mancette o regali o qualsiasi altra cosa potesse rallegrare bambini di sette e undici anni, me e mio fratello. Mamma si prodigò nei lavori più umili nonostante la sua laurea in scienze farmaceutiche le consentisse di aspirare ad altro. Papà si applicò nello studio per sei anni per poter garantire un futuro a moglie e figli, mentre i debiti aumentavano, in una terra dove non conosceva quasi nessuno. A muoverlo era la “fame”, cioè quella determinazione inossidabile che porta l’essere umano, mosso da un profondo desiderio di autorealizzazione, oltre che di necessità, a compiere le imprese più ardue, con il coraggio di spingersi oltre. Si laureò in Medicina e ritornò a lavorare. Nello stesso anno, 1986, per ironia della sorte l’Italia varava il primo corso di laurea in Odontoiatria. Adesso che era anche medico chirurgo, mio padre otteneva l’equipollenza del suo preesistente titolo di laurea di medicus dentarius acquisito in Jugoslavia. Era di nuovo un odontoiatra, e in un certo senso lo era due volte. In quegli anni non capivo bene cosa stesse succedendo, sapevo solo che i miei compagni di scuola giocavano, ridevano, ricevevano regali, come tutti i bambini spensierati delle elementari, mentre mio fratello e io imparavamo ogni giorno a “pulire bene il piatto” e a “non sprecare il cibo”, perché “il pane non si butta”, come ci avevano insegnato mamma e papà. La mia famiglia mi ha dato il primo, inestimabile esempio di tenacia nelle vesti di mio padre e di mia madre, sempre uniti nelle ristrettezze e nelle difficoltà. Mi hanno insegnato a crescere per diventare campione della mia vita. Campione della mia vita In questi ultimi anni ho avuto modo di confrontarmi con grandi atleti, ma anche con persone “normali” che desiderano migliorarsi sotto diversi aspetti, i primi ovviamente dal punto di vista della performance sportiva, gli altri soprattutto in termini di salute, lucidità, energia, qualità della vita. Non credo di essere depositario di chissà quale verità celata ai più, ma posso trasferire quanto ho avuto l’opportunità di imparare unendo le mie esperienze, piuttosto impattanti, di atleta, medico forense e coach impegnato nel miglioramento delle prestazioni. Tutto questo mi ha insegnato che ognuno di noi può e deve diventare campione della propria vita. Non è questione di classe sociale, né di medaglie sportive né tanto meno di lauree o competenze, bensì di un insieme di caratteristiche che ci è dato sviluppare, sempre che lo vogliamo, per vivere una vita sana e gratificante. La medaglia più importante non ci è consegnata al termine di una competizione sportiva, ma dalla vita stessa. Se la prima ha una durata limitata, la seconda può echeggiare per generazioni. Perché mai dovremmo diventare campioni della vita? Be’, concentrandoci sul nostro successo possiamo diventare più forti, sereni, grati e appagati, senza alcuna invidia per i risultati altrui. Per “successo” non intendo le medaglie, i lustrini o i profitti conquistati, bensì il modo in cui vinciamo le piccole e grandi sfide quotidiane, le stesse che possono sopraffarci se siamo impreparati. Essere più forti, superare gli ostacoli, porsi piccoli o grandi obiettivi e riuscire a raggiungerli, condividendo i propri trionfi con chi ci aiuta, è la strada maestra per realizzarci. Un sogno? No, assolutamente no, tutt’altro: la storia è affollata di persone che conducono esistenze gratificanti giorno dopo giorno, vivendo all’insegna di una grande consapevolezza. Ma esiste un “ma”. Per godere a pieno del diritto di essere campioni nella vita occorre assumersene le responsabilità, e questo prevede che accettiamo senza ombra di dubbio i doveri che questa comporta. Sarebbe troppo facile godere di diritti senza l’inevitabile corollario di doveri che questi comportano. Tradotto: fatica, spesso tanta fatica, una parola che fa storcere il naso a molti di coloro che ne conoscono il significato teorico ma che preferiscono aggirare le conseguenze pratiche con ogni genere di tattica e sotterfugio. Il mezzo attraverso il quale trasformiamo il nostro desiderio in realtà concreta è la fatica, e non c’è modo di farne a meno, spiacente. Scorciatoie? Nessuna. Fonti di ispirazione? Molte. Possiamo attingere alle peculiarità di tutti coloro che sono riusciti a fare la differenza conservando umanità e umiltà. Le loro prerogative ci offrono la base di partenza per diventare ciò che vogliamo essere. Semplice ma non facile. Dunque vediamo come si può fare, studiamo quali sono le caratteristiche che portano al traguardo. Immergiamoci. L’ABC del campione Tante persone, tante prerogative, tante caratteristiche. Ma ecco un fatto interessante: alcune peculiarità personali sono costanti, se non a tutti, ai più. Sempre le stesse, sempre efficaci. Possono mutare le persone, gli interessi, gli ambiti lavorativi, le idee, gli amori… possono cambiare tante cose, ma alcune caratteristiche spiccano immutabili nello scenario composito di vite eterogenee e senza apparenti punti di contatto. Costanti che possono essere accentuate e portate alla luce a dispetto della loro distribuzione ineguale. Non siamo tutti uguali, ma tutti possiamo portarle all’eccellenza, lavorandoci sopra con piena coscienza. Gli individui di successo (il vero successo) hanno in comune un livello di consapevolezza superiore riguardo a questi tratti fondamentali, l’ABC del campione. Dove A sta per Amore, la B per Bisogni e la C per Costanza. A di Amore L’amore è la leva principale della vita, non l’unica, ma sicuramente la più importante. Amare se stessi e ciò che facciamo ci permette di superare ostacoli e difficoltà. In base alla mia esperienza, posso affermare che i grandi campioni hanno in comune una dose di sano egoismo, il quale nella migliore delle ipotesi non sfocia nell’egocentrismo, né tanto meno nel narcisismo. Per “sano egoismo” intendo il volersi bene, l’amarsi e il prendersi cura di sé, dedicando tempo e premura a ciò che più ci giova. Come? Facendo ciò che più amiamo. Quando ci dedichiamo a qualcosa che amiamo, qualunque sia, la fatica pesa molto meno e la sofferenza si estingue in fretta. L’amore per la nostra persona ci porta a stare bene, a sviluppare un buon rapporto con noi stessi, corpo e mente. Di riflesso diventa più facile creare un buon rapporto con gli altri, con chi ci è vicino, con chi frequentiamo, con le persone con cui condividiamo la vita, un progetto o semplicemente un momento. Per quanto tempo passi, il problema fondamentale dell’umanità è da millenni sempre lo stesso: amarsi. Una questione oggi ancora più urgente. Il tempo per amarci l’un l’altro è sempre troppo poco, quindi affrettiamoci, perché al tramonto della vita, saremo giudicati sulla base dell’amore e dell’affetto che siamo stati capaci di donare, sulla nostra onestà e su come abbiamo fatto sentire gli altri. Amiamo un po’ di più cominciando da noi stessi: amiamoci, vogliamoci bene, regaliamoci qualche coccola in più e cerchiamo di condividerla con chi ci è vicino. L’amore è contagioso, genera coraggio, speranza, fiducia e dà un senso alla vita. Dai delfini ho appreso una lezione importante: non temere di amare, non temere di andare in profondità, piuttosto abbi paura di rimanere in superficie. Il vero amore, disinteressato e dunque sano, genera altruismo. B di Bisogni Conoscere i propri bisogni prevede una forte chiarezza sulle proprie necessità e ancora prima su se stessi e su come si desidera condurre la propria vita. Andare alla radice di questo aspetto richiede tempo e sensibilità, ma anche un lavoro di forte consapevolezza e crescita interiore: conoscersi, conoscere le proprie emozioni e imparare a gestirle. Il dialogo che sviluppiamo con noi stessi gioca un ruolo chiave. Il più delle volte parliamo troppo, ma ci ascoltiamo poco e male. La domanda è: so ascoltarmi? Ascolto le mie sensazioni? Cosa mi dico e come me lo dico? Cosa provo? Come agisco di conseguenza? Quale comportamento adotto in base alle mie sensazioni? Per fare chiarezza sui propri bisogni è necessario regalarsi momenti di isolamento e introspezione durante i quali sgombrare il campo da ogni fonte di disturbo e rumore. Lo scopo è trovare la luce nel buio. Conoscere i propri bisogni vuol dire sapere esattamente che cosa è davvero importante per noi in questo preciso momento, come pure cosa sia necessario fare per soddisfarli. In gergo sportivo: che cosa dobbiamo “allenare” per sentirci davvero appagati? Altrettanto fondamentale è capire che cosa più ci manca, facendo un bilancio di quali siano gli aspetti della nostra vita quotidiana ai quali non vogliamo e possiamo rinunciare – e parlo di abitudini sane – e dove invece possiamo trovare il giusto compromesso nel qui e ora. Avere chiari i propri reali bisogni, saperli vivere e condividere, costituisce la base della serenità. Solo riconoscendoli e soddisfacendoli nel modo corretto saremo felici e liberi di amare. C di Costanza Per costanza intendo la capacità di replicare le stesse azioni nel tempo, e indefessamente. Abbiamo tutti la possibilità di esprimere la massima assiduità quando siamo mossi da un motivo valido e reale. Allora scopriamo che ne vale la pena, che siamo disposti a soffrire per arrivare all’obiettivo. In questi casi il perché è più forte del come. Perché spesso le persone non sono perseveranti? La risposta può risiedere nella mancanza di un desiderio autentico o in una scarsa accortezza a proposito di scelte e obiettivi. Altre volte ciò che davvero non abbiamo chiaro è il “perché”. Potremmo non avere tirato le somme per capire se ciò che stiamo facendo corrisponde ai nostri desideri più veri oppure è al servizio di aspettative altrui. A volte siamo solo innamorati di un’idealizzazione, non ci caliamo nel concreto della realtà e, privi di risultati immediati, non siamo disposti ad andare avanti perché non ne traiamo alcuna soddisfazione istantanea. La costanza richiede visione, darsi un significato profondo su chi siamo, su dove vogliamo andare, tenere in mano la bussola della nostra vita, cercando di perseverare nei momenti di difficoltà, senza dichiarare l’abbandono nave, mantenere la rotta, cercando di essere flessibili sull’andamento della nostra navigazione, soprattutto quando il mare è in tempesta e sembra che tutto ci sia contrario. Crederci costantemente permette di approdare all’agognato porto sicuro, da cui ripartire più forti di prima. L’amore, i bisogni e la costanza sono tre caratteristiche che reputo essenziali. Pensando a ciò che caratterizza i grandi campioni, potrei elencarne altre, ma sono convinto che queste tre siano la vera forza motrice per affrontare qualsiasi sfida. E, di contro, sono ciò che più di ogni altra cosa manca alle persone che sono prive di una rotta precisa. Ci si convince fin troppo spesso che dietro ai grandi risultati ci siano colpi di fortuna. Può capitare, ma nella maggior parte dei casi essi sono il frutto di un duro lavoro, condotto tenacemente tutti i giorni. Per riuscire bisogna essere disposti a piccole e grandi rinunce, ma non parlo di sacrifici; se rinunci a qualcosa in nome di qualcos’altro che ti fa stare bene e ti piace, prevedi che la fatica di oggi porterà al risultato di domani. A noi la scelta. I risultati sono le conseguenze delle nostre azioni. Dimenticavo: come sempre un pizzico di grinta, in tutto! Il cavaliere oscuro “Quando ero un ragazzo ero un sognatore. Leggevo i fumetti e diventavo l’eroe di quei fumetti. Andavo al cinema e diventavo l’eroe di quel film. Ogni mio sogno è diventato realtà.” Lo ha detto Elvis Presley e la sua dichiarazione mi è rimasta impressa, perché a me è capitata la stessa cosa. Come credo un po’ tutti nell’adolescenza, mi identificai in un eroe che volevo emulare. Leggevo i suoi fumetti e ne ero ammaliato: Batman, il cavaliere oscuro, il detective imbattibile, il giustiziere. Con gli anni mi sono ispirato più ai delfini che ai pipistrelli, ma in fin dei conti anche io ho indossato una tuta nera aderente e una maschera. I sogni si avverano a volte per vie indirette e stupefacenti. Cosa significa diventare un apneista? Vuol dire amare l’acqua, sia nella sua forma clorata di piscina sia in quella salata di mare; amarla a tal punto da voler trattenere il fiato per svariati minuti e inabissarsi nel blu profondo alla ricerca un po’ di se stessi, un po’ di quella particolare sensazione di attrazione verso il limite onirico, e diventare un delfino. Indossare la muta e la maschera, rigorosamente nere, mi ha sempre fatto sentire come se avessi dei superpoteri. Mi trasformavo nel mio eroe dell’infanzia, non proiettato verso la notte, ma giù negli abissi del blu, fino alla conquista della corona di campione mondiale di apnea. Come tutti sanno, l’alter ego di Batman è il miliardario filantropo e playboy Bruce Wayne. Be’, io non gli somigliavo affatto. Ero simile più che altro a Clark Kent (Superman sotto mentite spoglie), timido, introverso, impacciato, occhialuto. Come questi supereroi, per certi versi anche io cominciai a condurre una doppia vita: da un lato secchione dedito allo studio della medicina, dall’altra atleta in muta nera da “supereroe”. Amavo lo studio e dunque: laurea, specializzazione, master e infine un dottorato di ricerca per poi occuparmi della ricerca forense. Ma non solo. Negli stessi anni in cui mi inabissavo alla ricerca dell’essenza della profondità del mare, l’amore per la scienza medica mi conduceva a viaggiare giù nel corpo umano, e in una veste professionale molto particolare. Le esperienze erano intense sia in ambito lavorativo che sportivo e sentivo che si coniugavano in una insolita combinazione che contribuiva alla mia crescita personale e professionale. Immergermi era soprattutto divertimento, evasione. Il mare ha sempre fatto parte della mia vita, l’ho amato fin da bambino, favorito in questo dalle mie origini istriane e dai miei genitori. Giunti in Italia, quando avevo cinque anni, mia madre mi iscrisse ai corsi di nuoto. Il mio istruttore dell’epoca, di cui ricordo perfettamente ancora il nome, Flavio, mi portò subito alla piscina dei grandi. Chissà, forse vide in me qualcosa che io non potevo scorgere. Avevo familiarità con l’acqua ed evidentemente se ne accorse all’istante. Ma quella vasca era enorme e senza fondo. I miei occhi di bambino la contemplarono riempiendosi di lacrime. Avevo una paura terribile, non ero abituato. Non ci volle molto per farci il callo: adoravo nuotare, ma ancora di più immergermi. Mia madre ricorda ancora che in piscina preferivo stare sott’acqua che in superficie. Avevo l’istinto di trattenere il fiato. O può darsi che cercassi di passare inosservato all’allenatore, che dettava ritmi piuttosto serrati. Il passaggio dal semplice hobby al preagonismo e all’agonismo fu alquanto veloce. Amavo nuotare a stile libero e a delfino, ma in tutta onestà, benché promettessi bene, non ero il primo della squadra. Mi tolsi qualche bella soddisfazione a livello provinciale e regionale ma, ripensandoci, mi resi conto che mi mancava la giusta grinta per affrontare l’agonismo, quel pizzico di peperoncino utile a trovare la motivazione che forgia il carattere e ti fa spiccare il salto di qualità. Vivevo un conflitto interiore. Sebbene volessi ottenere risultati nello sport, sentivo la responsabilità di conciliarlo con la scuola. Lì non brillavo affatto, anzi. Arrancavo nonostante tutto il mio impegno. Studiare, capire, fare i compiti: tutto un po’ troppo difficile. Intorno ai quattordici anni la contraddizione si inasprì. Da una parte l’idea di continuare a nuotare, ma gli orari mal si conciliavano con il resto, considerato che avevo anche due allenamenti al giorno, dall’altra la domanda delle domande, che mia madre mi rivolgeva senza posa. “Che cosa vuoi fare da grande?” Me lo chiede tuttora. Le premesse giocavano contro di me: nel nuoto non ero Federica Pellegrini e a scuola non ero Albert Einstein. Galleggiavo in una opaca mediocrità che non presagiva niente di buono. In terza media mi promossero, ma nel contempo mi consigliarono di non ambire a studi superiori troppo sofisticati. Un istituto tecnico avrebbe fatto al caso mio, con una bella pacca consolatoria sulle spalle. Nella pagella di fine anno era scritto nero su bianco che le mie capacità mentali erano limitate. Mia madre la lesse, alzò su di me uno sguardo accorato e disse: “Mike, che cosa vuoi fare da grande?” “Vorrei nuotare, ma mi piacerebbe diventare un dottore.” La mia risposta abituale. A dispetto dei miei insegnanti, mi iscrissi al liceo scientifico, dove cominciai a sospettare che forse ero davvero tonto come mi avevano descritto. Il programma di studio era ripido come una montagna e io non riuscivo a scalarla. Ricordo ancora i pianti, le crisi di ansia. Sviluppai reazioni cutanee allergiche dovute al senso di inferiorità, all’angoscia delle interrogazioni. Alla paura di non farcela. Con le lacrime agli occhi decretai che avrei smesso di nuotare, una decisione sofferta, dolorosa. Non volevo abbandonare la piscina e gli amici che mi ero fatto nell’ambiente, ma una decisione drastica si imponeva. Ero lontano da qualsiasi forma di armonia. Non sarei mai stato un campione, né nello sport né nella vita. I Fantastici 6: allenamento Sono sei gli elementi fondamentali per conseguire la propria armonia, sentirsi campioni della propria vita e riuscire a trovare quello che i latini definivano modus in rebus, cioè quel giusto mezzo che ci permette di vivere in equilibrio. Certo, so bene che sarà impossibile essere sempre al 100 per cento in tutti e sei i fattori, ma è sempre possibile cercare un corretto bilanciamento. Conoscendo noi stessi, possiamo regolarci a ragion veduta. I Fantastici 6 sono la nostra forza, l’armatura che fortifica la nostra vita e ci rende meno fragili. Cominciamo analizzando il primo punto: l’allenamento. Allenare sta per “dare con l’esercizio lena”, attitudine, capacità, vigore, in particolare in vista di circostanze e attività impegnative. Consiste nel rendersi adatti a specifiche prove. Vorrei che non lo intendessimo solo in chiave sportiva. Possiamo e dobbiamo avere chiari alcuni aspetti della nostra vita, lavorarci sopra, colmare le lacune laddove necessario e andare avanti. Nella mia visione ognuno di noi è atleta della propria vita, perché atleta è, nella sua etimologia, colui che lotta, che è proteso nello sforzo di superare una sfida, ma ancora di più se stesso; una figura più complessa del semplice sportivo, e che nell’Antica Grecia incarnava le più alte qualità umane, un esempio positivo per tutti gli altri. Essere un atleta vuol dire essere campione della propria esistenza, cioè rappresentare la maggiore espressione delle virtù e dei valori. Come posso traslare questo modello dallo sport alla vita, dove difficilmente si dispone di un allenatore, un preparatore, un nutrizionista, un mental coach al proprio servizio? Nella routine quotidiana, lavoro (tanto), impegni (sempre di più), famiglia (sì, no, forse) e tempo libero (sempre meno) ci trascinano in una corsa senza soste. Iniziamo con un passo alla volta, un metro dopo l’altro per incarnare in profondità chi vogliamo essere. Identifica chi sei Il primo passo è capire il tuo ruolo e soprattutto identificarlo chiaramente. Ognuno di noi riveste diversi ruoli nella vita. Bene, inizia a identificare i tuoi, cioè quello che sei e quello che fai (anche in minima parte) nella vita, individuando un numero massimo di otto ruoli, per poi assegnare a ciascuno un voto onesto da 0 a 10, dove 0 indica la completa e disastrosa inadempienza e 10 un’eccellenza insuperabile (e quindi rara se non impossibile) in quello specifico ambito. In seguito disegna una torta divisa in dieci cerchi concentrici e dividila in otto spicchi. Ogni spicchio corrisponderà a un ruolo. Lo schema è come segue: Colora dal centro (voto 0), verso l’esterno (voto massimo 10) gli spicchi indicanti i tuoi ruoli. Ora che avrai colorato ogni spicchio, avrai modo di vedere graficamente, la tua situazione attuale. Quali sono i tuoi ruoli? Qualche suggerimento: madre, amico, collega, pittore, regista, leader, proprietario di un cane… ogni attimo della nostra vita stiamo interpretando un ruolo e ognuno di essi è parte di quello che siamo. Se da una parte vi è l’atleta che fa l’atleta e pensa come tale, dall’altra parte vi è l’allenatore che ragiona da allenatore, entrambi presenti nella stessa persona. Ma i ruoli sono chiari e definiti. Poco importa che uno sia gregario, centro-avanti, pilone o attaccante, il punto è conoscere bene il proprio ruolo assumendosi le responsabilità che ne derivano. Per farlo al meglio suggerisco i seguenti passi. Analizzare tutti i ruoli. Identificare quali di questi sono più carenti e dove vorremmo portarci a un livello superiore. Scoprire quali azioni possiamo compiere per avere una svolta in questi ruoli. Ecco alcune semplici domande che ci possiamo porre: Nell’ergonomia della mia vita, nei prossimi mesi (6-12), dove metterò il mio focus? Su quale ruolo voglio lavorare? È sempre utile lavorare sulle aree di miglioramento della propria vita. Quindi innanzitutto identifichiamole. Qui di seguito fornisco alcuni suggerimenti, liberamente modificabili. Datevi un voto (da 0 a 10) in termini di soddisfazione personale circa lo stato in cui vi trovate ora, oggi, in questo momento e un voto in quello in cui vorreste essere tra dodici mesi. Alla luce dei due schemi precedenti, l’obiettivo è concentrarsi nel ruolo che ha il voto più basso e nell’area di vita che ha il gap più ampio, perché riuscendo a migliorare nei tasselli i più carenti, otterremo di riflesso un miglioramento complessivo. Come fare? In primo luogo occorre ritrovare il significato delle nostre scelte. Se riusciamo a imperniare la nostra vita intorno alla ricerca del significato di ciò che facciamo, il nostro stato di benessere aumenterà sulla media-lunga distanza, ed è questa la misura che conta. Se invece cercheremo la felicità nell’immediato è certo che avremo una vita stressante, inappagante, ingannevole e segnata da maggiori livelli di depressione, frustrazione e stress. Una volta chiarito che dobbiamo cercare il significato e agire con una prospettiva di media-lunga distanza, la logica conseguenza è concentrarci su ciò che è davvero importante, allontanando ciò che ci distrae. Il secondo step pratico è la definizione degli obiettivi. Per anni ci hanno inculcato che ogni obiettivo deve essere SMART, cioè corrispondere a cinque caratteristiche funzionali. Specifico: avere ben chiaro e preciso cosa voglio, in modo da poterlo esprimere in maniera dettagliata. Misurabile: essere in grado di quantificarlo per capire se l’abbiamo raggiunto. Accessibile: raggiungibile con le risorse e le capacità che ho a disposizione. Realistico: al bando i voli pindarici. Temporizzato: inserito all’interno di un orizzonte temporale specifico entro il quale raggiungerlo, con una scadenza (come il latte), anche per non cadere nella continua procrastinazione. La ragione per cui ci si affretta a insegnare come formulare obiettivi accessibili e realistici è che, se ciò che ci proponiamo è troppo difficile, la motivazione verrà presto a mancare aprendo la strada alla frustrazione. L’80 per cento degli obiettivi che mi pongo rispettano la regola dei cosiddetti “SMART”, tuttavia credo che in parte dovremmo sposare anche la logica opposta, mirando a qualcosa di folle, irrealistico, ambizioso e arduo da compiere. Le persone che cambiano il mondo non hanno mire realistiche, bensì obiettivi capaci di farle sognare a occhi aperti, di entusiasmarle, di infiammare il loro lato più ambizioso. Ciò implica che buona parte di questi obiettivi fallirà, ma fa parte del gioco e bisogna saperlo accettare. Mettiamolo in conto restando capaci di andare avanti e perseguire obiettivi coraggiosi. L’obiettivo deve farci ardere dentro, ed essere sufficientemente impegnativo da renderci orgogliosi, emozionarci, coinvolgerci. Dobbiamo sentirlo con ogni fibra di noi stessi. È il nostro obiettivo e sfidandoci ci motiva, ma non dimentichiamo che nella sua grandezza è necessario che sia segmentabile, ovvero divisibile in parti più piccole, tanti micro-obiettivi raggiungibili step by step, metro dopo metro. Alle Olimpiadi si gareggia ogni quattro anni, ma ci si arriva attraverso una serie di piccole e grandi gare di qualificazione. Un altro modo di vedere gli obiettivi? Il mio deriva dall’esperienza nell’apnea e ha dato prova di essere applicabile nella mia vita lavorativa, ovvero nella gestione dei pazienti e nella ricerca di alte prestazioni con gli atleti. Si tratta di una visione riassumibile nelle 5 C, cioè in cinque caratteristiche imprescindibili degli obiettivi, che, a scanso di equivoci, andranno costruiti uno per volta, passo dopo passo, attraverso una serie di sotto-obiettivi. In base al metodo delle 5 C, un obiettivo deve rispondere ai seguenti criteri. Chiaro: la chiarezza dell’obiettivo è fondamentale, innanzitutto verso se stessi e gli altri. Sapere dove andare, con chi, cosa e come fare. Quando l’obiettivo risulta chiaro a me e alla squadra che mi supporta, allora tutti sanno da quale parte dirigersi e cosa fare. La chiarezza di intenti è il primo movens per la costruzione di un risultato. Congruo: l’obiettivo è raggiungibile se congruo rispetto alle mie capacità, le mie caratteristiche e quelle della squadra che mi supporta. La parola “congruo” nasconde un significato più profondo, il coraggio di conoscere i propri limiti e saperli spostare. Il coraggio a mio avviso necessita di consapevolezza ed equilibrio, la base su cui poggia un obiettivo congruo. Non possiamo chiedere a un elicottero di volare come un aereo. La congruità di un obiettivo ci permette di essere lucidi e determinati nel suo raggiungimento. Costruito: un obiettivo si costruisce consapevolmente un passo alla volta, con tempi più o meno lunghi, anche sbagliando, ma andando avanti, sempre verso la medesima destinazione, non di rado cambiando direzione. Ogni volta che si costruisce un sotto-obiettivo, si rafforza la certezza che la direzione è giusta. Procedere un passo alla volta rende duplicabile il lavoro da farsi, escludendo la necessità della fortuna. In un lavoro di programmazione a medio-lungo termine, nulla viene lasciato al caso. Solo così costruiamo risultati certi, nello sport e non solo. Comunicato: il processo di comunicazione ha un ruolo importante nella costruzione di un obiettivo, soprattutto quando si inizia a lavorare per raggiungerlo in team. Comunicare l’intento è gioco-forza per rendere una vera squadra consapevole delle intenzioni. Quando poi si definiscono ruoli e competenze, limiti e strategie finalizzate all’obiettivo, ci si accerta che il gruppo non agisca mai come un branco. Condiviso: l’obiettivo deve essere condiviso sempre e in ogni sua evoluzione. La comunicazione è un passaggio obbligato, ma la condivisione rappresenta il trait d’union tra il leader e la squadra. Questa permette che in ogni vittoria si celebri il gioco di squadra, e che l’eventuale sconfitta sia ammortizzata da tutta la squadra. La condivisione favorisce gli intenti e fa del talento del singolo la qualità di tutto il gruppo. È stata l’apnea a trasmettermi la lezione che alla base delle 5 C vi è un unico grande comune denominatore, che nello sport come nella vita consente di compiere un salto di qualità. È una C che racchiude tutte le altre: la C di consapevolezza. “Consapevolezza” è la parola magica che custodisce quanto di più profondo una persona possa ambire a conquistare. Consapevolezza del proprio respiro, della propria mente, del proprio corpo, della propria alimentazione, delle proprie azioni e, in definitiva, del proprio Io. La consapevolezza: non vi è nulla di più potente, ma anche nulla di più sfuggente. Conquistarla richiede grandi sforzi, scrupolosa autoanalisi, cambiamento e tenacia, comprensione e accettazione. Non ultimo, ci impone di accettare i consigli e le critiche. Ma soprattutto essa sopraggiunge dopo lungo tempo, e a molti non va a genio di attendere a lungo. Come pure non piacciono a tanti gli obiettivi che esigono un gravoso pegno in termini di fatica. Ma cerchiamo di capire cosa implica tutto questo. Assumersi la responsabilità di formulare consapevolmente i propri obiettivi. Il solo modo per avere il controllo della nostra vita è sapere che cosa vogliamo e dove intendiamo arrivare. A questo scopo occorre porsi queste domande: “Chi voglio essere tra cinque, dieci, vent’anni? Che significato voglio dare alla mia vita? Dove voglio e posso arrivare?” Preoccuparsi di avere ben chiare le azioni necessarie per raggiungere i propri obiettivi. Affinché i nostri obiettivi siano reali e non meri castelli di sabbia, chiediamoci: “Come faccio a coprire la distanza da qui a lì? Cosa devo fare? Sono pronto a compiere questo passaggio? Quali tappe intermedie mi attendono prima di raggiungere il traguardo finale?” Monitorare la propria condotta per verificare che sia in linea con gli obiettivi che ci siamo prefissi. Possiamo avere obiettivi ben definiti e un piano d’azione delineato con cura, ma nondimeno finire per farci fuorviare da imprevisti, distrazioni, mancanza di concentrazione e altro ancora. Il punto chiave è capire se davvero siamo allineati con noi stessi e con i nostri valori, perché il più delle volte vi è una totale incongruità tra ciò che diciamo e ciò che facciamo. Le nostre azioni in realtà rispecchiano esclusivamente ciò che siamo, e non ciò che vorremmo essere. La ricerca più sincera dei nostri valori e la successiva integrità nell’agire ci permettono di spingerci oltre. Ma tutto questo sarebbe vano senza lo strumento più potente a disposizione dell’essere umano, cioè la sua volontà, che possiamo trasformare in un’arma invincibile. Possiamo impugnarla per andare a prendere ciò che pensiamo di meritare oppure gettare la spugna. A noi la scelta. La scelta A un certo punto della vita bisogna scegliere, iniziare a crescere, responsabilizzarsi. Io non ho fatto eccezione. I professori del Liceo Scientifico Gandini di Lodi mi avevano chiesto: “Caro Marić, cosa vuoi fare da grande?” La risposta era sempre la stessa: iscrivermi alla Facoltà di Medicina e Chirurgia a Pavia e diventare un dottore. Un grande sogno o un’idea ambiziosa per gli altri, ma non per me. Le mie parole suscitavano sorpresa e imbarazzo. “Ma sei sicuro? Guarda che c’è un test di ammissione! Prendono solo i migliori.” Alcuni mi suggerivano di desistere e mi consigliavano di andare verso obiettivi più abbordabili, una facoltà più semplice o un corso di laurea senza test di ingresso. E stavano per convincermi. D’altra parte io per loro ero lo straniero, il figlio degli slavi, avevo un nome “importato”, era normale che parlassi male l’italiano e soprattutto che non fossi in grado di scriverlo correttamente. All’esame di maturità rimediai un 5- nel compito scritto di italiano, l’unico della mia classe a non raggiungere la sufficienza. Poi compensai con la prova scritta di matematica, dove mi guadagnai un 8+. All’epoca, il voto di maturità era molto importante, perché contava la metà del punteggio per il concorso di ammissione alla Facoltà di Medicina. Se fossi uscito con 60/60, sarei partito con una valutazione del test di base pari a 30 punti, cui si sarebbero sommati i punti del concorso. Dovevo giocarmi il tutto per tutto alla prova orale. Ecco allora la mia decisione: scelsi di essere me stesso. Mi resi conto che avevo una grande possibilità; per la prima volta avevo davanti a me una commissione di docenti che non mi avevano mai visto né sentito, quindi privi di pregiudizio su di me, sulla mia famiglia, su mio padre e sulle vicende che proprio in quegli anni stavano imperversando in Jugoslavia, che da lì a poco sarebbe diventata ex-Jugoslavia. Correva l’anno 1992, il caos straziava le terre che io tanto amavo e dove non potevo ritornare. La guerra stava dividendo e uccidendo i popoli serbo e croato, e aveva allontanato la mia famiglia dai luoghi in cui avevamo ancora zii, cugini, vari parenti e i miei cari nonni. Alcuni ragazzi della mia età, amici del mare, erano partiti per il fronte e scomparsi nel nulla. Il mio cognome incuriosì gli insegnanti della commissione d’esame esterna, che vollero conoscere la mia storia. Fu così che riuscii a parlare di ciò che più amavo, la mia terra, il mio mare e i miei parenti. Discutemmo della guerra, ricollegando la questione a Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli, alla fisica, e ai condensatori (proprio così) in quella che via via divenne una conversazione appassionata fra pari. Quello che accadde in seguito mi emoziona ancora. Gli insegnanti si congratularono di tutto cuore e altrettanto fecero i miei compagni, secondo i quali avevo tenuto testa alla commissione. Non mi avevano mai sentito così brillante e preparato su così tanti e svariati argomenti. E infine venne la domanda degli insegnanti: “Caro Marić, lei ha scelto cosa vuol fare da grande?” Uscii dal liceo con 53/60, un voto che mi lasciò un po’ di amaro in bocca. Una cosa però l’avevo capita: se volevo, potevo davvero fare la differenza, ma il segreto era partire da me stesso. Dovevo smettere di farmi condizionare dalle idee che gli altri si facevano della mia persona e permettere al mio vero io di emergere indisturbato. Avevo un mondo, una storia, una sensibilità e una immaginazione unici dentro di me. Non dovevo vergognarmene ma esibirli senza remore. In ciascuno di noi c’è qualcosa di unico e il solo modo per spiccare è permettergli di brillare. All’epoca l’idea mi colpì con la forza di un maglio. Avevo conquistato davvero un pezzo della mia maturità. Valore ai valori Ecco il vero punto di partenza, da cui scaturisce tutto il resto. È imperativo essere onesti con noi stessi e domandarci senza alibi in che misura le nostre azioni riflettano ciò in cui crediamo più profondamente, ovvero i nostri valori fondamentali. Troppo spesso le persone dipingono un ritratto di sé che somiglia solo in parte (o niente affatto) a ciò che sono. Ad alcuni, abbagliati dalle proprie convinzioni illusorie, questa incongruenza sfugge del tutto, soprattutto per mancanza di umiltà. Ma solo quest’ultima è la vera leva che ci consente di compiere un lavoro sincero di crescita interiore, un atto d’amore verso se stessi. Mettiamoci a nudo e guardiamoci senza bluffare. Nella nostra vita ci sono due grandi regni: uno è visibile, l’altro invisibile o, per meglio dire, inosservato dai più. Visibili sono i nostri comportamenti, i nostri risultati. Ciò che invece è per lo più invisibile corrisponde a idee e valori, che benché intangibili esercitano una forza concreta. Sulla lunga distanza, infatti, chi vive una vita che non gli appartiene, prima o poi sarà smascherato. Ciò che ha sempre nascosto, forse anche a se stesso, verrà alla luce. Siccome i nostri risultati vengono generati dalle nostre azioni, ciò che non è visibile sono le nostre idee, che generano i nostri comportamenti. E le idee derivano dai valori. Il solo modo per essere persone di valore è allineare i nostri valori alle nostre azioni e queste ai risultati che vogliamo ottenere. Esiste il momento dell’avere: i risultati. Esiste il momento del fare: le azioni. Esiste il momento del pensare: le idee. Esiste il momento dell’essere: i nostri veri valori. Ed è per questo motivo che ognuno di noi ottiene ciò che è disposto a essere. Di conseguenza l’invisibile deve essere più forte e vero del visibile, altrimenti prima o poi crolliamo. I valori sono il passaporto che ci permette di misurare la qualità della nostra vita e delle nostre risposte alla vita. Avere chiari i nostri valori e dare loro valore ci rende persone di valore. Conoscere i nostri valori è la chiave per reagire nei momenti di sconforto e identificare i nostri punti di forza. Conosciamo i nostri valori? Ogni quanto tempo lavoriamo sulla loro messa a punto? Verifichiamo che le nostre azioni siano in linea con i nostri valori? Ci sentiamo coerenti e soprattutto ci vediamo davvero coerenti? Le persone vicino a noi vedono la nostra coerenza? Nei momenti di difficoltà pensiamo ai nostri valori? Prova a elencare i tuoi valori. Questi sono alcuni esempi, sei libero di modificare o arricchire la lista. Ma come faccio a scegliere i miei valori e comprendere quali mi appartengono davvero? Nessuno è in grado di stabilirli al posto nostro, anche perché vanno individuati con il cuore e non con la testa. Perciò ascoltare il nostro cuore e capire chi siamo è il primo passo per comprendere come reagiamo alle sfide della vita. Per definire i nostri valori, suggerisco di: Prenderci del tempo per e con noi stessi (possibilmente isolati). Scrivere e tenere un diario, annotando i nostri pensieri. Vivere situazioni che non abbiamo mai sperimentato (non dico paracadutarsi da un aeroplano… ma quasi), cimentarci con qualcosa di nuovo, come una ricetta mai provata. Iniziamo facendoci queste domande: 1. Che cosa mi rende felice? 2. Per che cosa vale la pena morire? 3. Perché faccio ciò che faccio? Identifichiamo ora tre valori per ogni area della nostra vita, quindi interroghiamoci. Che cosa è davvero importante per te? Qual è la singola cosa più importante? (valore x). Che altro è importante? (valore y). Chiudi gli occhi, prendi tre respiri profondi e domandati cosa sarà realmente importante per te fra dieci anni (valore z). Ora, per ogni area, chiediamoci: nella mia vita, può esistere il valore x senza il valore y? Se la risposta è si, vuol dire che x è più importante di y. Se la risposta è no, vuol dire che y è più importante di x, quindi y va in alto e diventa x. Poniti questo tipo di domanda per tutto l’elenco fino a ottenere gerarchie di valori consolidate. Ora che abbiamo dato un ordine ai nostri valori torniamo indietro per ripensare ai nostri obiettivi ed eventualmente, se necessario, rivederli. Questa è la nostra vera carta d’identità, quella che ci permette di creare una relazione con noi stessi e con gli altri. Se non conosciamo i nostri valori, non sappiamo che cosa sia bene per noi, perché alla fine sono loro che guidano le nostre scelte nella vita, nello sport e nel lavoro. Un vero campione si costruisce dall’interno, partendo da qualcosa che possiede e matura nel profondo, un sogno, un desiderio, una visione. Il vero campione ha abilità e volontà, ma la sua volontà è più forte dell’abilità. Solo così diventiamo campioni della nostra vita, solo così godremo di vero rispetto: diventeremo persone di valore, quindi autentiche. La svolta Negli gli anni del liceo, due emblematiche figure storiche avevano stuzzicato la mia fantasia: Leonardo da Vinci e Albert Einstein. Sfoggiavo spesso una t-shirt con il famoso ritratto dello scienziato intento a fare le linguacce. Una sua frase mi aveva colpito e mi ronzava nel cervello da tempo: “La misura dell’intelligenza è data dalla capacità di cambiare quando è necessario.” E il momento era arrivato, il primo di tanti che sarebbero seguiti. A differenza di molti amici del liceo volati in vacanza senza indugio dopo le fatiche della maturità, lasciai trascorrere circa dieci giorni di libertà e poi ripresi i libri in mano. La prova orale particolarmente efficace mi aveva insegnato che potevo andare a prendermi quello che pensavo di meritarmi e volevo, essere ammesso alla Facoltà di Medicina. Furono sei settimane infinite e faticose, ma mi ero organizzato. Mi ero trasferito nella nuova “Croazia”, ovvero nella mia amata Rovigno d’Istria e, tra la casa di mia nonna o dei miei zii, studiavo, studiavo e studiavo. Certo le tentazioni erano davvero tante, il solo fatto di essere al mare, potermi divertire, giocare, uscire e tutto ciò che ovviamente può interessare a un ragazzo di diciotto anni costituiva una grossa tentazione, ma nella mia testa c’era un solo obiettivo: il test di ingresso di lì a poche settimane. La parola magica era “no-distraction”. Mi svegliavo la mattina presto, come se la scuola non fosse finita e studiavo fino a una piccola pausa pranzo, poi mi rilassavo qualche ora, quindi tornavo sui libri. Matematica, fisica, e soprattutto biologia e chimica che non avevo mai studiato al liceo: questi erano gli argomenti da preparare per quel dannato test, che mi era entrato nel cervello come un chiodo fisso. Stavo imparando a organizzare i miei tempi, ad assumermi le mie responsabilità perché il risultato questa volta dipendeva soltanto da me, nonostante corresse voce che si entrasse per raccomandazione, voce cui decisi di non dare troppa importanza. L’8 settembre 1992, varcai la soglia dei cancelli della segreteria dell’Università degli Studi di Pavia in via Sant’Agostino e, in compagnia di mio fratello, iniziai a scorrere dal basso l’elenco dei nomi di chi aveva partecipato al concorso qualche giorno prima. Il cuore mi martellava impazzito nel petto mentre scorrevo la lista verso l’alto senza trovare il mio nome. Infine, là sopra, in cima, eccomi, primo dell’elenco: primo classificato, il miglior punteggio di tutta la facoltà! Mi si piegarono le ginocchia, la testa mi girò per qualche istante, mentre incredulo mi voltavo a cercare mio fratello. Corsi verso di lui e poi fuori con lui, entrambi in lacrime, verso la più vicina cabina telefonica. Anche se esistevano già i primi cellulari, in famiglia non potevamo permetterceli. “Mamma, mamma! Pronto, mamma! Ce l’ho fatta. Sì, ce l’ho fatta! E non è tutto! Siediti…” Ebbe così inizio la carriera universitaria che mi portò a compiere scelte piuttosto… inusuali. Dopo la specializzazione, continuai il percorso di studi con un dottorato di ricerca diventando poi professore all’università. Al solo pensarci mi viene la pelle d’oca, ma questo non è tutto, perché lungo il percorso presi una strada fra le meno battute per cominciare a lavorare non esclusivamente su pazienti in vita. Volevo portare la mia professionalità verso un campo che i profani considerano senza dubbio alquanto macabro: l’esame autoptico dei cadaveri. Probabilmente avete presente le scene dei film in cui l’investigatore di turno si rivolge al medico che analizza i resti della vittima di un delitto per trarne indizi utili alla soluzione del caso. Ecco, in estrema sintesi e in termini generici, sto parlando proprio di questo. Forse, in qualche modo questo mio interesse riverberava quello che avevo sempre nutrito per Leonardo da Vinci, che aveva prestato il suo genio allo studio dell’anatomia umana in un’epoca in cui certi studi erano pionieristici e stigmatizzati. A ogni modo, mossi i primi passi lungo un percorso insolito che mi portò qualche anno dopo a diventare uno dei pochi italiani dotati di una specializzazione specifica e profonda nel campo della ricerca cadaverica forense. Giù la maschera Cambiare: la cosa più difficile di questo mondo. A un certo punto, dopo tanto peregrinare, arriva il momento in cui senti che devi prendere una decisione, la tua vita deve svoltare e acquisire un significato diverso. È ora di portare in superficie ciò che hai appreso nelle profondità del tuo percorso. Che cosa consideri davvero importante? Che cosa conta di più nella vita? Per che cosa vale la pena di morire? Chiunque sappia rispondere ha ben chiara la visione della sua vita, la sua missione personale. Non abbiamo superpoteri, ma il potere non ci manca. Nascosto e da allenare, ma c’è. E questo costa fatica. Del resto sarebbe troppo facile volere i nostri diritti dimenticando i doveri che fanno loro da contraltare. Anche se iniziare un nuovo cammino ci spaventa, dopo averlo intrapreso quasi sempre ci rendiamo conto di quanto fosse pericoloso rimanere fermi. Ogni cambiamento porta con sé scetticismo, spesso anche tristezza e solitudine, ma come posso scoprire me stesso se non oso spingermi verso luoghi oscuri dove mai avrei osato immaginare di arrivare? È bellissimo assaporare il gusto della vittoria, ma per raggiungere quel podio devi mettere in preventivo che cadrai molte volte e che questo esige una grande voglia di vivere la vita in toto e di mettersi continuamente in discussione. Lo scotto da pagare non manca. Quando decidi di cambiare strada, cambiano anche i compagni. Chi rincorre certi sogni, spesso viene visto come quello “diverso”, che non fa più parte di un certo gruppo o come colui che dimentica le vecchie amicizie, mentre ha solo cambiato abitudini. Se vuoi creare qualcosa di nuovo devi essere disposto a essere frainteso e, anche per molto tempo, a rimanere solo. Le persone non si dimenticano, ma cambia il modo in cui le vediamo, cambia il posto che occupano nel cuore, nella vita, perché cambia il ritmo della nostra camminata. Alcune persone sono entrate nella mia vita in punta di piedi e ne sono uscite esattamente allo stesso modo; altre hanno creato un gran trambusto, hanno sconvolto i miei progetti, mi hanno confuso le idee. Certi individui sono entrati portando gioia, altri sono usciti lasciandomi solo tristezza. E poi c’è chi nonostante tutto fa ancora parte della mia vita. Io non dimentico nessuno: se sono passati o sono rimasti hanno comunque avuto un significato, piccolo o grande. Quando vuoi cambiare davvero, questi sono i sei errori da evitare. Paura: tutto cambia e sempre, fa parte dell’evoluzione, bisogna solo saperlo accettare. Cercare di piacere a tutti: le persone troveranno sempre un tuo limite o da ridire su quello che fai, bisogna farsene una ragione. Vivere nel passato: il passato è per definizione passato, non esiste più se non nei ricordi o nelle emozioni. Siamo figli del passato ma viviamo il presente. Pensare troppo: porsi troppi problemi vuol dire che non ti senti pronto a cambiare, ma se aspetti di essere pronto non cambierai mai. Vivi la vita come si presenta. Comprare la felicità: quando cambi non ti serve comprare ciò che lasci alle tue spalle. Le cose più importanti sono gratis. Temere il peggio: l’uomo diventa quello che pensa. Brutti pensieri generano brutte azioni e compromettono la qualità del cambiamento. Per riuscire a cambiare davvero credo che sia necessario attraversare le quattro fasi che chiamo “le 4 D”: Desiderio. È la fiamma che ti nasce dentro e che solo tu puoi percepire, trovare e ancor prima saper accendere. Nessuno può obbligarti, nasce tutto da te, dai tuoi bisogni, dalla tua chiarezza di intenti e da quel famoso “click”. Decisione. La decisione spetta a te e soltanto a te: decidere significa anche recidere, quindi essere in grado di prendere una strada, evitarne un’altra e capire cosa fare per raggiungere il tuo obiettivo. Disciplina. La disciplina è la capacità di affrontare lo sforzo necessario per raggiungere un obiettivo dandosi regole e rispettandole. Maggiore è la motivazione, più semplice sarà disciplinarsi. A volte dobbiamo essere duri con noi stessi. All’essere umano non piace faticare. 4. Determinazione. Cioè la capacità di mantenere la rotta. Essere determinati significa sapere dove si sta andando e conoscere le azioni necessarie per arrivarci e soprattutto significa non mollare a prescindere dalle circostanze. La determinazione, a mio avviso, è strettamente correlata alla motivazione, cioè a quella famosa fiamma che innesca il desiderio. Oltre ogni respiro Il mio percorso di ricerca e studi era tanto affascinante quanto impegnativo e mi fece approdare a una professione che potrei definire “a tinte forti”. Dalle mie competenze e dal mio lavoro dipendeva molto: l’identificazione di vittime di sventure che avevano perso ogni cosa, compresa la propria identità. In questi anni ho operato nel quadro, ahimè, delle tragedie più drammatiche, mediatiche e no, che abbiano colpito l’Italia: dal disastro aereo di Linate all’attentato al Pirellone di Milano, fino ai ritrovamenti di centinaia di persone senza volto o quanto meno non identificabili a vista. Questo il mio compito: partecipare ai sopralluoghi, raccogliere materiale utile alle indagini ed eseguire autopsie parziali, cercando di ricostruire l’identità partendo da pochi elementi craniali, per sciogliere diversi quesiti di natura giuridica, amministrativa e non solo. Un’esperienza dura, difficile ma indubbiamente interessante, che mi ha permesso di crescere come professionista, e credo ancora di più come essere umano. La morte fa paura, è tabù, soprattutto nella cultura occidentale non è certo argomento di conversazione ordinario. Ammetto che anche io stesso la temo, ma accostarmi a soggetti privi di vita e ridotti in condizioni così gravi da pregiudicarne l’identificazione mi ha obbligato ad affrontarla da vicino. Che cosa ho visto? In questi lunghi anni… di tutto. Ricordo i turni massacranti in Medicina Legale al fianco della professoressa Cristina Cattaneo, vero punto di riferimento internazionale nell’ambito della Medicina Identificativa. Ho assistito al dolore di chi aveva perso i propri cari, e ho conosciuto la sofferenza riflessa dentro di me, mentre mi addentravo in storie ed eventi così tragici da mozzare il fiato. Ho conosciuto forse il lato più oscuro della vita, che può sembrare surreale: immaginatemi chiuso in una sala settoria in presenza di uno o più cadaveri, impegnato ad analizzare organi, denti, ossa, a prelevarne una parte e ripulirli per poi analizzarli o predisporli per il microscopio. Le emozioni erano tante, da principio burrascose e difficili da metabolizzare, ma di fronte a quei corpi, spesso informi per via delle cause di morte violenta (incidenti, omicidi, incendi…), sorgeva in me la più alta forma di rispetto. Avevo una missione verso i defunti, verso chi li amava. Quei resti chiedevano di essere riconosciuti per l’ultima volta, avevano il diritto di sapersi riconosciuti. I parenti, che anelavano di ricevere anche solo un brandello del vestito indossato dall’estinto, aspettavano per ore interminabili che io completassi il mio incarico e portassi un fugace istante di sollievo. Non meritavano nulla di meno. Mi rendo conto che potrei scrivere un libro intero su questa parte della mia vita, circa diciassette anni di ricerca applicata e innumerevoli autopsie, ma oggi che mi occupo di divulgazione e non di ricerca, desidero condividere solo ciò che ho appreso. Ogni esperienza forte, soprattutto se tragica, è in grado di fornire spunti di riflessione, ma il segno che lascia, non di rado indelebile, difficilmente è decifrabile nell’immediato; le emozioni si oppongono con la loro mole gravosa e tutto il loro carico di disagio, sofferenza, tristezza, angoscia. Nella loro ombra è quasi impossibile trovare il bandolo della matassa di sensazioni che serrano il cuore. Ricordo che nei primi anni di studio e pratica le autopsie mi toglievano il sonno, un’ansia terribile mi assaliva mentre turbinava nella mia mente il cupo mistero della morte insieme, di conseguenza, a quello della vita. Che senso aveva entrare nel mondo, percorrerlo senza meta apparente e quindi abbandonarlo all’improvviso, lasciandosi alle spalle una scia di dolore? La frequentazione della sala settoria mutò la mia sensibilità, le mie percezioni. Mi scoprii incapace di mangiare la carne; vederla nel piatto o, peggio ancora, sul banco della macelleria, mi infondeva un disagio che non avevo mai conosciuto in precedenza. Tante cose cambiarono in quegli anni, ma soprattutto a cambiare fu il mio modo di guardare alla vita stessa. Quando affronti la morte faccia a faccia, quando la guardi attraverso gli occhi dei parenti delle vittime che aspettano il tuo “verdetto” dietro la porta, l’ordine delle priorità viene sconvolto. Le esperienze della vita assumevano tutto un altro peso e diventava imperativo cercare un significato. Doveva esserci. E se non fossi riuscito a trovarlo, avrei dovuto assolutamente escogitare un modo per attribuirgliene uno. In quegli anni imparai qualcosa che in seguito mi è sempre risultato più che utile: spostare l’attenzione. Mi spiego meglio. Nel momento in cui cerchiamo il significato delle nostre azioni e ci interroghiamo sul perché, l’ago di una misteriosa bussola personale cambia gradualmente orientamento. Quando spostiamo l’attenzione da ciò che facciamo (e dalla ricerca di una gratificazione immediata) per trasferirla sul suo significato, tutto muta d’accento. In quanto esseri umani siamo proiettati verso la ricerca del piacere, possibilmente istantaneo, ma domandandoci che cosa dia realmente senso alla vita vuol dire resistere laddove gli altri mollano. I momenti duri, da cui nessuno è esentato, quando ti domandi: “Ma chi me lo ha fatto fare?”, ecco, sono proprio questi momenti che infine ci definiscono come esseri umani. Se chiudendo gli occhi e pensando alla nostra vita, potessimo cancellarli, quale sarebbe il risultato? Sicuramente una vita più rilassata e piana, ma anche una perdita inevitabile di significato. Ecco, dunque, che cosa ho imparato frequentando la morte e il dolore che le fluttua tutto intorno: se voglio vivere una vita ricca di significato devo essere disposto ad accettare la fatica, la sofferenza e perfino il tormento. Tuttavia mentirei se negassi che ancora oggi a volte mi chiedo: “Ma chi me lo fa fare?” quando una sfida mi angoscia o sgomenta. Allora, ricorro a tre quesiti, che sono un po’ il mio mantra, e mi accompagnano nelle scelte di vita, sempre riflettendo su come evolvermi. Ti suggerisco di prendere una matita, pensare a una tua situazione difficile e darti delle risposte: 1. Perché faccio quello che faccio? 2. Cosa sto imparando / ho imparato da questa situazione difficile (elenca tre elementi utili)? a. b. c. 3. La prossima volta che mi si presenterà una situazione simile, come utilizzerò questi tre elementi? Saprò utilizzarli al meglio? Devo approfondirli? È stato solo quando ho preso ad ascoltare il mio cuore che ho davvero iniziato a vivere la mia vita, cioè a fare quello che ha un significato per me, anche se non piace necessariamente agli altri o esula dalla loro concezione dell’esistenza. Nel momento in cui ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che ha un senso per te e, a tale scopo, attivi le tue risorse interne ed esterne senza badare al giudizio altrui, la vita che hai sempre desiderato comincia a sbocciare. Apnea, Acqua, Amore, Agonismo Con l’inizio dell’università, iniziò anche un nuovo periodo della mia vita, o meglio il ritorno a un grande amore: l’acqua. Questa volta la passione mi travolse in modo diverso. Ero diventato più autonomo nelle mie scelte, più organizzato. La vita universitaria mi piaceva e mi permetteva di gestire al meglio i momenti per lo studio, per il tempo libero, e di calcolare il timing per gli esami e tutto quello che comporta il dover frequentare un corso di laurea con frequenza obbligatoria, ma rispetto ai tempi del liceo avevo uno strumento in più, la mia consapevolezza. I docenti mi giudicavano per la mia preparazione e non per chi ero o per il mio cognome. Negli anni universitari l’acqua divenne la mia forza vitale: dedicavo il tempo libero al nuoto, avvicinandomi sempre di più all’apnea, che mi aveva sempre affascinato. Avevo indossato per la prima volta la maschera da sub a quattro anni, quando me l’aveva messa mio papà. I ricordi di quei momenti sono indelebili. Mio padre, sempre lui, mi istruì sul mondo della subacquea, dell’apnea e del mare e poi, in quegli anni di università a Pavia, mi fece incontrare i miti dell’apnea: da Enzo Maiorca a Jacques Mayol, fino a Umberto Pelizzari, icona storica dell’apnea moderna, con cui strinsi un’amicizia ventennale. In quegli anni l’apnea per me era un diversivo, un modo per provare sensazioni nuove, divertirmi po’ d’estate e fondamentalmente sentirmi all’altezza della situazione quando venivo chiamato a partecipare a corsi di formazione tenuti dallo stesso Pelizzari o ai suoi tentativi di record negli anni magici della Sector No Limits, in cui ebbi la fortuna di essere coinvolto. Quando il mio mentore decise di dare l’addio al grande blu nel 2001, pensai che fosse venuto il momento di provare a fare qualcosa a livello agonistico. Avevo dato prova di me in diverse occasioni e ricevuto molto incoraggiamento a fare sul serio. Io credevo davvero di poter nuotare come un delfino e lo spirito di emulazione non mi faceva difetto. Ma soprattutto mi affascinava terribilmente l’idea di mettermi quella muta nera che, nella mia immaginazione mi trasformava in un supereroe, il caro vecchio Batman. Nell’istante in cui prendevo la maschera, la muta, una seconda pelle e un’armatura, e l’enorme monopinna che unisce i due piedi, simile alla coda di un cetaceo, di colpo mi sentivo l’eroe della mia vita. A emozionarmi, senza pensare a una profondità specifica era il fatto di potermi perdere nel blu, ed entrare in acqua senza bagnarmi. Il silenzio del mare, privo di giudizio, dove tempo e spazio erano sospesi, era una dimensione di pace e completo abbandono di me stesso. Decisi di cimentarmi con le gare di apnea. Ed è qui che iniziarono i problemi. Se prima l’apnea era stata un gioco, poi qualcosa scattò nella mia testa ed essa divenne il pilastro della mia esistenza, sovvertendo l’ordine delle priorità. Al primo posto c’era l’apnea e tutto il mondo che vi orbitava, mentre la carriera medica universitaria scorreva in parallelo. Gli anni dal 2001 al 2007 furono molto intensi: diviso tra un master in identificazione forense prima e un dottorato di ricerca poi. Ma a scandire le giornate era il tempo dell’apnea. Passavo senza sosta dalla piscina alla sala settoria e ritorno. Nessuna distrazione, ero focalizzato sui miei obiettivi in maniera estrema, e questa fu la mia forza in quel periodo parossistico. Ero stato un bambino che sognava di nuotare come un delfino e adesso potevo farlo, dimostrando per sopraggiunta il mio valore. Mi allenavo, studiavo, mi allenavo, studiavo, frequentavo la clinica medica, mi allenavo, frequentavo gli studi medici dei miei primari, mi allenavo: una vera ossessione, ma mi piaceva un sacco e tutto questo mi consentiva di viaggiare per il mondo inseguendo le competizioni. Fu un periodo intenso, ma la verità è che di medaglie ne vidi poche. In compenso accumulai tante frustrazioni, sottoposto al giudizio delle mie doti lacunose e degli insuccessi che inanellavo. Una domanda mi perseguitava, sempre la stessa, assillante: “Ma non hai ancora deciso cosa vuoi fare da grande? L’apneista o il medico?” Ma la passione supera sempre la frustrazione e nel 2003, un anno decisivo, qualcosa cambiò quando ai campionati nazionali di apnea in Croazia mi classificai al terzo posto. L’entusiasmo mi sopraffece, finalmente una medaglia! E proprio nell’anno giusto, in cui si sarebbero tenuti, di lì a pochi mesi, i campionati europei di apnea. Vi avrei partecipato come atleta della nazionale croata, ne ero convinto al 100 per cento. E invece no. Anziché selezionare i primi tre atleti uomini e le prime tre atlete donne per formare la squadra, la federazione pescò i primi due uomini e la prima donna soltanto, per mettere insieme un team di soli tre atleti. A quanto pareva, scarseggiavano i fondi e si doveva stringere la cinghia. La mia. Mi sentii tradito, preso in giro, e lo sconforto ebbe la meglio. Ero così arrabbiato che accarezzai l’idea di piantare in asso l’apnea e l’agonismo una volta per tutte. Quando ami tanto qualcosa, le conferisci un’aura poetica, la vedi sotto una luce fatata. Ma la poesia era morta e cominciai a pensare che tutto quel romanticismo fosse soltanto un parto della mia immaginazione, la realtà era arida e ostile. Rimuginai e mi macerai nel dubbio, ma ben presto capii che dovevo cambiare io, il mio atteggiamento e soprattutto il mio modo di pormi per l’obiettivo che mi ero prefissato. Dovevo fare sul serio, ancora di più, ancora meglio. Fu allora, quando questo interruttore scattò in me, che diedi il via al mio vero percorso sportivo, in quello che sarebbe stato un anno di cambiamento senza compromessi. Via la zavorra Dopo aver tolto la maschera per vederci chiaro, un bravo apneista toglie la cintura dei piombi, cioè le zavorre che contrastano la spinta di galleggiamento, ma che, se mal calcolate, ci fanno sprofondare. Imparare a togliere le zavorre, eliminare il peso superfluo è la vera salvezza per iniziare a respirare la vera vita. Così è stato anche per me. Succede che nel turbinio della vita si tende ad aggiungere anziché eliminare, ma dobbiamo essere in grado di dire stop a costo di risultare antipatici o perdere amicizie. Che poi in realtà non sono tali, ma questo lo si scopre in seguito. La vita moderna ci abitua al “di più” e al “non è mai abbastanza”, ad aggiungere impegni su impegni, che rincorriamo anche per compensare le nostre carenze. Accumuliamo contenuti superflui alla nostra vita, perché in fondo non abbiamo maturato un buon equilibrio con noi stessi. È difficile sottrarre. Spesso diamo per scontato che tutto quello che facciamo sia assolutamente necessario. Ma è proprio così? La paura di abbandonare ciò che ci è familiare può frenarci, ma una volta che saremo entrati nella nostra nuova realtà, più semplice e autentica, vedremo i grandi benefici dell’aver buttato la zavorra. Fermati un attimo, prenditi tre minuti, respira a occhi chiusi cercando la tua calma, individua esattamente le tue zavorre e rispondi lucidamente a queste domande: - A cosa devo dire “Stop, adesso basta, una volta per tutte?” - A chi devo dire “Stop”? Quali relazioni voglio eliminare dalla mia vita? - Quali no dirò ora e a chi li dirò? Quale abitudine è da eliminare? So bene che fa parte della natura umana cercare scorciatoie e imboccarle senza pensarci due volte. Ma tenerci strette possibilità che non soddisfano i nostri veri desideri, solo perché sono comode e a portata di mano, rappresenta il vero grande ostacolo all’autorealizzazione. Le scorciatoie abbreviano il tragitto, ma nella direzione sbagliata; l’attaccamento al comfort ci impedisce di progredire e di dire stop, o semplicemente di sganciare i pesi che ci rallentano. Quanti sanno davvero rinunciare tranquillamente a qualcosa di bello oggi per raggiungere magari il proprio sogno tra dieci anni? Ci vuole coraggio! Ma come definire il coraggio? O lo provi e lo vivi, o non credo sia facile delimitarne i contorni. Cosa significa immergersi nel blu del mare senza vedere il fondo, o in sala settoria stare davanti a un cadavere o cimentarsi in un esame universitario o in un colloquio di lavoro importante? E che dire del pensiero di avere un figlio? Il coraggio è umano quanto la paura, il problema è utilizzarlo non solo come strumento di difesa, ma per indirizzare le proprie scelte di vita. Rischiare equivale ad assumersi le proprie responsabilità. Una scelta difficile, soprattutto quando non hai modo di scaricare le colpe su qualcun altro e ti esponi in prima persona. Il coraggio: la forza di trasformare un pensiero in azione. La gratificazione finale sarà proporzionale alla temerarietà con cui avrai vissuto. Lasciare andare le persone che non sono pronte ad amarti, questa è la cosa più difficile da fare nella vita, e anche la più importante. Ma anche smettere di avere conversazioni difficili con persone che non vogliono cambiare e non sono disposte a farlo, di esserci per chi non si cura della tua presenza (anzi per loro neanche esisti). Il nostro istinto è fare tutto il possibile per guadagnare l’apprezzamento di chi ci circonda, ma è un impulso che ci ruba tempo, energia, salute mentale e fisica. Quando inizi a lottare per una vita con gioia, interesse e impegno, non tutti saranno pronti a seguirti. Questo non significa che devi cambiare ciò che sei, ma che devi lasciare andare le persone che non sono pronte ad accompagnarti. Se sei escluso, insultato, dimenticato o ignorato da coloro a cui regali il tuo tempo, smetti di offrire loro la tua energia e la tua vita. La verità è che non sei per tutti e non tutti sono per te. Questo è ciò che rende così speciale trovare persone con cui amicizia o amore sono ricambiati. Forse se smetti di apparire, non ti cercheranno. Forse se smetti di provarci, la relazione finirà. Forse se smetti di inviare messaggi, il tuo telefono rimarrà silenzioso per settimane. Questo non significa che hai rovinato la relazione, significa che l’unica cosa che la sosteneva era l’energia che solo tu erogavi per mantenerla. Ma questo non è amore, è attaccamento, ossia dare una possibilità a chi non la merita! Quando ti rendi conto di questo inizi a capire perché sei così ansioso quando trascorri del tempo con persone, attività o spazi che non ti si addicono. Cominci a realizzare che la cosa più importante che puoi fare per te stesso e per tutti quelli che ti circondano è proteggere la tua energia più ferocemente di qualsiasi altra cosa. Fai della tua vita un porto sicuro, in cui sono ammesse solo persone con te compatibili. Non sei responsabile della salvezza di nessuno. Non sei chiamato a convincerli a migliorare né tanto meno a risolvere i misteri delle loro vite. Meriti amicizie vere, impegni veri e un amore completo con persone sane e prospere. La decisione di prendere le distanze dalle persone nocive alla fine ti darà l’amore, la stima, la felicità e la protezione che meriti. 120 metri Nel settembre del 2003 iniziò la nuova stagione sportiva. Mi avevano escluso dai campionati europei e questo mi aveva inizialmente avvilito, ma nel medio e lungo termine le ingiustizie mi hanno sempre dato la forza di andare avanti, trasformandosi in grinta e determinazione. Ero carico e combattivo. Ci fu una riunione di squadra, in cui illustrai al mio allenatore, Valter, che cosa mi prefiggessi per l’anno seguente. Chiesi a Luca, il preparatore se fosse disponibile a seguirmi e a Lorenzo, lo psicologo, di fornirmi le strategie mentali per migliorare la mia apnea. C’era poi il mio amico del cuore, Filippo, che volevo al mio fianco come sempre. Filippo era molto importante per me. L’avevo conosciuto qualche anno prima, in occasione di una competizione internazionale in cui avevamo legato immediatamente. Un vero amico e un uomo di mare e di apnea. Da allora era stato il mio “assistente”, sempre con me, una presenza rassicurante senza la quale mi sarei sentito meno completo. Filippo era un tipo pacato, più grande di me, il tipo di persona che risulta simpatica al primo istante. La nostra amicizia era un punto fermo della mia vita fuori e dentro l’acqua. Il suo accento veneto, una cantilena familiare, mi faceva sentire a casa perché mi ricordava i miei parenti istriani, con quel “ciò” piazzato all’inizio di ogni frase. L’avventura ebbe inizio con la consueta necessità di coniugare sport e professione. L’impegno agonistico si dimostrò spietato: orari ben chiari, settimane programmate al secondo, nessuna distrazione, solo un grande desiderio di allenarmi per diventare un apneista più forte, ancora più forte, il più forte di tutti. Non era più tempo di mezze misure. La mia devozione all’obiettivo era assoluta. Ripensando al mio stato mentale di quel periodo, quasi mi spavento: niente e nessuno mi avrebbe fermato. Ma la teoria si scontra spesso con la realtà e gli imprevisti che esistono nel mondo reale. Il primo, forse il più grande, fu la famiglia. La mia ossessione per l’apnea, ormai totalizzante, mi portò a rompere i rapporti con mamma e papà, un punto di riferimento di cui non avevo mai potuto fare a meno. A preoccuparli era la mia dedizione verso l’agonismo, il ritmo convulso degli allenamenti. Se oggi capisco bene come possano essersi sentiti, lo stesso non posso dire del me stesso di allora, che non accettò di essere messo in discussione. L’incomprensione si tradusse in conflitto e quest’ultimo in un silenzio che si protrasse per quasi un anno. Il sogno di mia madre era vedermi nei panni del bravo dottore sistemato sotto ogni punto di vista, sposato e con figli. Una vita tranquilla e serena, molto diversa da quella che conducevo fra le salme e uno sport che aveva tutte le carte in regola per gettare nell’ansia un genitore premuroso. Per lei, che mi vedeva immobile sul pelo dell’acqua intento a trattenere il fiato in apnea statica, “facevo il cadavere”. In questo tipo di allenamento occorre trattenere il fiato stando fermi a faccia in giù, un po’ appunto la posizione del “morto a galla”, per quanto brutta sia questa espressione. Mia madre, che tutto è tranne una persona “acquatica”, disse chiaro e tondo che la mia vita e le mie scelte non le andavano più a genio e mio padre le si alleò, proprio lui che mi aveva insegnato a immergermi in apnea quando ero un frugoletto, proprio lui che mi aveva messo la maschera per la prima volta e mi aveva presentato i miti del mio sport. Le discussioni divamparono, e oggi non posso fare a meno di ripensarci con rammarico. Tuttavia col tempo ho capito che mio padre mi aveva decifrato correttamente. Lui sapeva che non scherzavo più, era consapevole che ero il tipo di persona incapace di arrendersi di fronte a un’ingiustizia e che avrei fatto qualsiasi cosa pur di guadagnarmi la mia rivincita dopo l’esclusione dal campionato. La determinazione che mi aveva portato a costruirmi una carriera universitaria importante e quasi unica, vincendo svariati concorsi e basandomi solo sulla mia forza e sulla mia preparazione, adesso era asservita al desiderio di rivalermi e dimostrare chi ero. Papà l’aveva capito. Quanto a mio fratello, povero lui, si trovava in mezzo al fuoco incrociato fra me e i miei genitori, e ce la metteva tutta per fare da paciere. Ma ormai il dado era tratto, non avevamo più nulla da dirci: io da una parte e loro dall’altra. Il mio caro amico Filippo era a conoscenza della situazione e cercava di mediare, tranquillizzando da un lato i miei e dall’altro me, che di certo non ero sereno quanto avrei desiderato. Filippo ce la mise tutta, si prese a cuore il mio stato d’animo e quello di mamma e papà. Stavo male e so che anche loro soffrivano e avevano paura perché sapevano che avrei potuto esagerare e farmi male. Io invece non ci pensavo, in un certo senso mi sentivo come Batman, imbattibile, tanto più che avevo al mio fianco Filippo, che fungeva un po’ da Alfred, il maggiordomo di Bruce Wayne che è soprattutto un consigliere strategico e un grande amico. Un anno difficile, molto più del previsto; gli allenamenti andavano bene, le settimane scorrevano veloci, e io mi sentivo sempre più forte, ma il rapporto con i miei cari si era incrinato e mi lasciava una ferita aperta. Cercavo di non pensarci, ma era lì e doleva. La mia squadra – Valter, Luca e Lorenzo – mi era vicina e mitigava i momenti duri con sessioni di allenamento mentale e di svago per permettermi di crescere sia come atleta che come persona. Il ruolo che ebbero nella mia evoluzione è difficilmente sopravvalutabile: erano le mie persone di fiducia, quelle rare, con cui ci si capisce senza parlare. Un affiatamento unico, costruito con la profonda condivisione di tanti momenti impegnativi. E imprevisti che non avrei mai potuto mettere in preventivo. A febbraio mi venne diagnosticata un’aritmia sospetta, che mi costò il certificato medico sportivo agonistico per l’apnea. Passai un mese di inferno in una serie interminabile di esami cardiaci. Nessuno sapeva spiegarmi l’origine del problema, che metteva a repentaglio la mia preparazione sportiva. Se ci ripenso, oggi sorrido e mi do del matto: non mi preoccupavo della mia vita, ma del fatto che non potevo allenarmi come volevo! Poi, per fortuna, emerse che la causa era relativamente meno grave del previsto, ero vittima di un forte stress e di ipoidratazione. Quindi fine dei contrattempi? Nemmeno per idea. Nel mese di aprile, un bambino, trattato in ospedale, mi trasmise la varicella, l’unica malattia dell’infanzia che non avevo avuto. Un giorno sua madre telefonò in reparto per avvisarci che il bimbo non poteva presentarsi alla visita, perché manifestava i segni della malattia. Da buon medico, sapevo che la contagiosità risale fino a due settimane prima che il paziente esibisca i sintomi, esattamente il periodo in cui lo avevo sottoposto a controllo medico. In men che non si dica mi ritrovai a letto coperto di croste e con dolori lancinanti, quasi trafittivi, sulla pelle. Due settimane chiuso in camera, isolato dal mondo e fremente di rabbia, un po’ verso quel bambino incolpevole (lo dico con affetto e credo possiate capirmi) e soprattutto verso il destino che mi impediva di allenarmi. Giugno, il mese della verità, era sempre più vicino, restare inoperoso a letto mi faceva impazzire, non potevo permettermelo, così decisi di investire il tempo a mia disposizione in un altro genere di allenamento: tecniche di visualizzazione, training mentale, meditazioni e tutto quello che poteva aiutarmi a gestire la gara imminente dal punto di vista della gestione interiore. Quando a maggio riuscii a prendermi qualche giorno di ferie, mi recai nel Mar Rosso con l’inseparabile Filippo, l’amico del cuore, il mio fidato assistente. Tanti allenamenti, risate a non finire e a letto presto. Questa fu la routine per due settimane, fino al venerdì che precedeva la partenza. Alle 16:30 mi preparai per il mio ultimo allenamento in mare, dovevo fare un tuffo a -70 m di profondità con la mia amata monopinna, ma, arrivato alla quota prevista, avvertii un rumore strano all’orecchio destro, qualcosa che non avevo mai sentito prima. Fortunatamente nessun dolore, nulla di nulla. Ritornai in superficie. Il tuffo era andato molto bene, le sensazioni erano state buone, le gambe erano in forma, la testa pure… ma provavo un leggero fastidio all’orecchio. Nulla di che, a prevalere era la gioia di avere compiuto un ottimo allenamento. Ma poi, una volta rientrato in albergo, mi accorsi che l’udito si stava abbassando e sentivo un dolore sempre più acuto. La visita di un amico otorinolaringoiatra produsse una diagnosi impietosa: lacerazione del timpano destro. La terapia: antibiotici, antinfiammatori e non rientrare in acqua per almeno due settimane. Due settimane? Mancavano undici giorni alla gara, il momento più importante della mia vita! La notte seguente fu un inferno. Il tormento era duplice: l’orecchio faceva un male cane e lo spirito era avvelenato da una rabbia e un rammarico impotenti. Focalizzato sulla performance, avevo trascurato di ascoltare il mio corpo. La rottura del timpano, che mi ha lasciato in eredità una ipoacusia, era stata la diretta conseguenza di avere compensato male. In ogni caso ero stato fortunato, perché in questi incidenti può capitare di accusare vertigini, forti disorientamenti, convincersi di salire invece che scendere e di perdere coscienza. Rientrato in Italia, ero in preda allo sconforto, le avversità prima della gara si erano susseguite senza soluzione di continuità. Io però volevo crederci. Accantonai le raccomandazioni dell’otorino e il lunedì ero già in acqua nella piscina di Lodi con un tappo di cera nell’orecchio destro, affinché non vi entrasse acqua provocando ulteriori danni. E via di allenamenti, il giorno fatidico era sempre più vicino. Forse fui un folle, ero davvero “ossessionato” dall’apnea, e rischiai troppo. Ma in quel momento non vedevo alcun pericolo, era tutto normale e nemmeno per un istante pensai che stessi mettendo a repentaglio la mia vita. E venne il giorno della gara, su cui potrei scrivere un libro a parte: i preparativi, le persone, la temperatura dell’acqua, la mia muta, la monopinna, le paure, la concentrazione. E Filippo sempre con me. Voglio soffermarmi su due cose: la prima è la determinazione con cui disegnai nella mia testa la gara perfetta. L’avevo già registrata nella mente, l’avevo accordata, si trattava adesso di “musicarla”. Filippo come sempre si dimostrò un valido scudiero, entrò in acqua per primo, mi aiutò a calzare la monopinna, mi rasserenò e mi caricò. Io ero pronto: mi sentivo un carro armato, non mi avrebbero fermato nemmeno con i razzi. La seconda fu l’apparizione di mio padre. Lo vidi sopraggiungere al campo gara a bordo di un gommone. Non poteva essere lui! Il suo arrivo mi turbò, poi infastidì, e infine ne compresi il perché. Papà venne verso di me, mi accarezzò e mi sussurrò: “Tua madre e io siamo con te.” Quindi saltò su un’altra barca e si allontanò. Quel giorno, il 5 giugno 2004, ai campionati internazionali di Medolino realizzai 120 metri in apnea, trattenendo il fiato per 2 minuti e 20 secondi. Avevo stabilito il nuovo record del mondo. Telefonai a mia madre. Ero in lacrime: “Ce l’ho fatta, ora non ho più niente da dimostrare a nessuno!” Quel giorno segnò il ritorno della famiglia e mi fece capire tante cose. O forse no? Marginal Gains Ci sono record che resistono da anni o che vengono migliorati raramente e con notevoli difficoltà. Che cosa si può fare per incrementare prestazioni sportive che sembrano già ai limiti delle possibilità umane? Come può un atleta giunto a risultati eccezionali tentare di abbassare ulteriormente i propri “personali”, guadagnando decimi o centimetri nonostante i tentativi precedenti siano risultati infruttuosi? Negli ultimi decenni la ricerca scientifica e la tecnologia applicate allo sport hanno fatto passi da gigante, mettendo a disposizione strumenti e pratiche che erano negati agli atleti precedenti. Basta pensare alle calzature tecniche per l’atletica, ai telai, alle meccaniche, ai caschi in uso nel ciclismo, ai costumi creati per i nuotatori (e in parte successivamente vietati perché eccessivamente performanti), senza dimenticare le tecniche sofisticate di allenamento o i regimi alimentari personalizzati. Oggi che i limiti massimi sembrano essere stati raggiunti e le conquiste tecnologiche sono appannaggio di tutti, cosa possiamo fare per valicare le estreme soglie fisiche, atletiche e mentali? Esiste la possibilità di operare miglioramenti così incisivi da agire significativamente sulle prestazioni complessive dell’atleta? L’evoluzione dello sport sta portando l’attenzione verso quei dettagli che rivestono sempre più importanza all’interno di una prestazione, giocando spesso un ruolo decisivo. Ci sono argomenti che fino a qualche anno fa venivano trascurati o ai quali comunque non veniva riconosciuto un ruolo chiave. Si tratta dei cosiddetti “marginal gains”. In cosa consiste la teoria del guadagno marginale? La dottrina è semplice: piccoli singoli dettagli all’interno della prestazione possono contribuire a modificarla in positivo. L’idea è che se si riesce a migliorare tutto quello che si fa anche solo di un 1 per cento, la somma di queste piccole ottimizzazioni produce un guadagno sostanziale. Così si è cominciato a ottimizzare un po’ tutto quello che gira intorno allo sport e alla vita dei singoli atleti, o meglio all’uomo che muove l’atleta. La ricerca è andata a studiare per esempio il cuscino più comodo per riposare, il miglior gel per i massaggi e tanti altri aspetti che possono sembrare irrilevanti ma non lo sono affatto. Il concetto di guadagno marginale ha avuto un impatto importante nello sport, e può averlo nella vita di tutti i giorni di ciascuno. In fin dei conti dietro al miglior performer c’è sempre l’uomo, con la sua umanità. Possiamo dunque applicare questa strategia a noi stessi rammentando innanzitutto che le nostre debolezze, ben lungi dal doverci turbare, possono essere trasformate in opportunità allo scopo di creare un adattamento e ottenere un guadagno marginale. Questa formula ha dalla sua l’inesorabilità della matematica. Applicata con metodo, porta a un miglioramento considerevole. Proviamo a pensare cosa accadrebbe se ogni giorno, per i prossimi 365 giorni, migliorassimo le nostre prestazioni dell’1 per cento rispetto alle 24 ore precedenti. (1,01)^365 = 37,78 Dopo un anno ci ritroveremmo a essere circa 38 volte migliori rispetto alla situazione di partenza. Attenzione, ne stiamo parlando in linea teorica, ma questo ci fa capire inoltre l’esatto contrario. Cosa avverrebbe se decidessimo di lasciarci andare, se ogni giorno peggiorassimo solo dell’1 per cento? Cosa volete che sia allenarsi l’1 per cento in meno? Non cambierebbe poi molto, giusto? Sbagliato: dopo 1 anno ci ritroveremmo praticamente a zero. (0,99)^365 = 0,03 Risultati numerici a parte, la formula dei guadagni marginali ci insegna una regola fondamentale per il nostro percorso di vita: i piccoli progressi (+1 per cento), se cumulati giorno dopo giorno, esplodono in una crescita esponenziale. Senza respiro Dopo aver stabilito il record mondiale, ero convinto di avere capito un sacco di cose, di essere maturato e finalmente di “succhiare il midollo della vita”. Ma non era proprio così. L’anno a seguire fu spettacolare: la mia autostima era a mille, mi sentivo un supereroe fatto e finito. Ero un giovane medico specialista, avevo iniziato un dottorato di ricerca, guidavo una bella macchina e, in più, potevo vantarmi di saper trattenere il fiato per più di sei minuti. Non che fossi vanaglorioso, né tanto meno esuberante, tutt’altro: ma dentro di me avevo maturato l’idea di essere un figo pazzesco. Fuori non si notava, rimanevo una persona molto tranquilla e poco appariscente, tanto che non sfoggiai la mia macchina nuova neanche con Filippo. Ma dentro era tutta una festa con i fuochi d’artificio. Può sembrare strano, ma questa era la mia vita: volevo distinguermi senza farmi notare. Un attimo dopo il mondo finì. 29 luglio 2005. Il telefono squilla. La voce al capo opposto della linea è rotta, esitante. “Mike, ieri sera Filippo è uscito in mare a Chioggia per fare un po’ di apnea con un amico. Non sono tornati. Li hanno dati per dispersi.” Raphaelle Giordano ha scritto: “La tua seconda vita comincia quando capisci di averne una sola”, ed è ciò che mi accadde, il giorno in cui la prima finì insieme a quella di Filippo. La sua morte fu la mia, la sua scomparsa coincise con la dissoluzione dell’uomo che ero stato fino a quel giorno. Il buio calò come una coltre impenetrabile. Tutto ciò che, freddo e oscuro, può discendere sull’animo umano mi trovò e mi avvolse. Ansia, angoscia, paura, tristezza, rabbia, insonnia, depressione, solitudine… erano dentro e fuori di me. Erano tutto ciò che sentivo e provavo. Nello spazio dell’assenza improvvisa e inconcepibile di Filippo si aprì un buco nero, che mi attrasse e inghiottì. Ero solo e la luce era scomparsa. Al mio fianco c’era sì la mia famiglia, mio padre, mia madre, mio fratello, e poi il mio allenatore, il preparatore e lo psicologo e qualche amico storico. Per il resto, purtroppo, il vuoto. Un attimo prima ero al centro delle attenzioni, attorniato di presunti amici, un attimo dopo fra me e il resto del mondo si estendeva un oceano. La prova più dura era appena cominciata e ad accusare il colpo fu anche il fisico, come è naturale. Ogni attività era sospesa, non riuscivo a dedicarmi ad alcunché, nulla mi interessava e presi 20 kg conducendo una vita priva di significato, meccanica. Facevo il mio lavoro, ma non coltivavo nessun interesse se non per il gelato e il wrestling, di cui divenni un cultore. Mi piazzavo davanti alla TV e aspettavo che le emozioni tacessero. Apatico, in balia di me stesso, mi immergevo in una fossa senza luce, trattenendo non solo il fiato ma tutto me stesso. Filippo non c’era più, e io mi stavo inabissando come lui. Ritorno a quei giorni e mi domando come sia potuto crollare così completamente e istantaneamente. Qualcosa dentro di me si spezzò. Conoscevo la morte, i suoi effetti, le sue conseguenze sui parenti delle vittime, l’avevo maneggiata, analizzata, eppure riuscì a colpirmi come se fossi appena venuto al mondo, ignaro della sua potenza distruttiva. Oggi mi si dipinge un sorriso sulle labbra, se penso a quei momenti, e stento a credere che io e quell’individuo comatoso che passava ore sprofondato davanti alla televisione siamo la stessa persona. Non me ne vergogno, così come non mi vergogno di dichiarare apertamente che ebbi severe crisi d’ansia e, nella notte, di pianto dirotto. Mi ero rifugiato a vivere a casa dei miei, l’esistenza stessa mi atterriva. Avevo paura di me, di uscire di casa, di tutto quello che non rientrava nella mia zona di comfort sempre più asfittica. L’armadio della mia camera reca ancora i segni dei pugni che sferravo, e delle testate con cui lo colpivo per fugare la sensazione ottenebrante di essere lì lì per morire, ingabbiato dentro me stesso insieme a una belva assetata di tenebra, un dolore al petto e allo stomaco insopportabili. Sette lunghi mesi. Per sette lunghi mesi evitai la piscina, il mare, non entrai più in acqua, non feci sport. Lasciai che la vita scorresse al di fuori di me. Poi qualcosa cambiò. Ma che cosa? Qual è la molla che ci spinge a risalire dal fondo dell’abisso, che cosa ci induce a cercare uno spiraglio di luce nell’oscurità più fonda? Be’, posso soltanto riferirmi al mio caso personale, nella speranza che contenga elementi utili per altre persone. Nel mio caso, i fattori che mi spinsero a cercare di tornare in superficie furono diversi. In primo luogo, ho sempre dovuto faticare, lottare per emergere, a scuola e nello sport. Niente di facile, niente di precotto mi è stato servito su un buffet imbandito a mio uso e consumo. Mai. Così, a un certo punto mi sfiorò l’intuizione che dovevo fare qualcosa per me e me soltanto, unico attore della mia vita, unico responsabile della sua qualità. In passato mi ero lasciato condizionare dal giudizio degli altri, ma adesso gli altri erano come scomparsi. Ero solo con il mio dolore, se escludo i miei genitori e gli amici più cari, che potevano essermi vicini, ma certo non rimpiazzarmi nel processo di rinascita. O io o nessuno. Spostai poco alla volta e per abitudine l’attenzione sulla mia forza interiore. Si era incrinata, ma non ancora infranta del tutto. Iniziai a pormi alcune domande, che poi sono le stesse che mi rivolgo nei momenti di difficoltà: 1. Qual è quella cosa che hai fatto negli anni e che ti fa stare bene? 2. Perché ti fa stare bene? (scrivi almeno tre motivi). a. b. c. 3. Come puoi utilizzare questi tre elementi oggi per risolvere/alleviare il tuo problema? Il secondo punto: i valori nonché i princìpi di vita con cui sono cresciuto in famiglia. Quei valori mi hanno ispirato a tornare in me (ma di questo parlerò in seguito più compiutamente). Il terzo punto è stato, ed è, il sogno. Sono cresciuto sognando, volevo diventare l’eroe dei fumetti che leggevo, una specie di Batman dell’apnea, un eroe imbattibile e sempre disposto a lottare per ciò in cui crede. E, guarda un po’, stavo attraversando una fase tipica nella vita di ogni eroe: sconfitta e abbattimento. Dovevo vincere le mie paure e tornare in mare, libero come un delfino da tutte le catene che mi imprigionavano fisicamente e mentalmente. Che cosa mi aveva insegnato l’apnea? Come ero riuscito a fare cose incredibili, proprio io, che ora mi sentivo sprofondare nel buio assoluto? Mi misi davanti allo specchio per capire come potevo convertire l’eccellenza sportiva, guadagnata con fatica e sudore, e trasformarla nella vita di tutti i giorni. Osservando le occhiaie che mi sottolineavano lo sguardo spento e il fisico appesantito, faticai a riconoscermi. L’apnea mi aveva dato tanto ma io non ne avevo colto il significato più profondo: lottare sempre, non per una medaglia, ma per la vita. Dovevo ripartire da questa lezione. L’apnea mi aveva insegnato a mettere in luce le poche risorse di cui l’essere umano è dotato: forza fisica, mentale (emotiva e spirituale) e una forza più enigmatica che va oltre (trascendente). Le avevo sempre allenate, coltivate, ci avevo lavorato duramente per arrivare preparato al giorno della gara. Lo stesso nella mia carriera universitaria. Una volta individuate e capite, queste risorse dovevano essere investite e trasformate nella quotidianità. Mi serviva un piano d’azione, una programmazione tale da riprendermi metro dopo metro – secondo dopo secondo – la mia vita. Dovevo diventare allenatore di me stesso e imparare ad ascoltarmi. Prepararsi, allenarsi, ripetere, faticare mi era sempre stato utile per arrivare pronto alle gare, agli esami, per darmi fiducia, sentirmi preparato. E più ero preparato, più la mia performance risultava “facile” (le virgolette sono d’obbligo), perché percepivo maggior armonia dentro me stesso. Ecco, dovevo ricostruire la mia armonia, partendo da dentro per poi portarla fuori, verso gli altri. Usando la mia esperienza, ciò che avevo imparato da apneista quando attraverso il respiro lavori sulla mente e prepari il corpo, puoi superare limiti che consideri invalicabili, puoi raggiungere il tuo essere in profondità, laddove si trova la vera forza motrice della vita. Ora si trattava di metterlo in pratica nella sfida più dura che avessi mai affrontato. I Fantastici 6: saper recuperare Ritrovare le energie. Necessario, indispensabile, e non solo quando si tratta di prestazioni sportive. Quando parlo di recupero intendo due momenti ben distinti e differenziati: notturno e diurno. È ormai acclarato che quasi il 30 per cento della salute dipende dalla nostra capacità di recuperare le forze, eppure la maggior parte di noi vive con il motore sempre acceso e il piede affondato sull’acceleratore. E così prima o poi fondiamo. Qualsiasi mezzo, anche il più performante, come una Ferrari o una Lamborghini, ha bisogno di raffreddarsi e di fare il pieno. Immaginiamo di essere alla guida di un super bolide e di voler arrivare quanto prima a destinazione sulla tratta Milano-Roma. Andiamo a tutta birra e decidiamo di non fare rifornimento perché fermarci in una stazione di servizio ci porterebbe via minuti preziosi. Andiamo di fretta, dunque perché perdere tempo? So che viene da ridere, eppure anche noi spingiamo al massimo la “macchina umana”, per poi meravigliarci che dopo qualche settimana a pieno regime, ci scopriamo ridotti allo sfinimento. Ci guardiamo allo specchio e come Forrest Gump sentiamo di non poter correre nemmeno un metro in più. “Sono un po’ stanchino.” In realtà siamo sfiniti. E quante volte capita di dormire male per via della giostra di pensieri che si rincorrono tutta la notte. Morfeo ci abbandona al nostro destino, spaventato dalle ansie che prendono il sopravvento nella nostra mente agitata. Nelle prossime pagine suggerirò quale sia il modo migliore di strutturare le nostre giornate inserendovi le dovute pause. Rallentare non vuol dire perdere tempo, le pause non sono deviazioni dal percorso, ma una sua parte integrante. Qualità del sonno Più della durata, è la qualità del sonno che fa il riposo. Quanto a questo, possiamo ottenere risultati considerevoli lavorando sulla respirazione ogni notte per cinque/dieci minuti. Nell’arco di due settimane il miglioramento sarà evidente. Ma non bisogna sottovalutare l’importanza della durata. Una persona che mediamente dorme meno di sei ore a notte per due settimane consecutive registrerà performance fisiche e mentali paragonabili a quelle tipiche di un individuo che non chiude occhio da quarantotto ore. Un terzo della vita di un essere umano è vissuto nel sonno, senza particolari differenze fra individui sedentari da un lato e atleti di élite al lato opposto di una gradazione immaginaria. A ogni modo, un’intensa attività fisica o cerebrale provoca un incremento significativo delle esigenze fisiologiche e cognitive, che possono richiedere un tempo di recupero maggiore per il ripristino, con conseguente aumento del fabbisogno di sonno. Se in passato distinguevamo gli stati di coscienza associati al sonno in quattro fasi con l’aggiunta della fase REM (Rapid Eye Movement: movimento rapido degli occhi), oggi è più comune la nomenclatura tripartita N1, N2 e N3 adottata dall’American Academy of Sleep Medicine nel 2007 sulla base dell’aspetto e delle frequenze delle oscillazioni dell’elettroencefalogramma. La fase N3 riunisce i precedenti stadi 3 e 4, ambedue caratterizzati dalle grandi onde lente, anche se in percentuale diversa. Il sonno si divide quindi in zona REM e NREM, nella quale distinguiamo N1, N2, N3. In una notte ordinaria il processo è ciclico, con insorgenza del sonno seguita da una rapida discesa alla fase N3 entro la prima ora. Questa è seguita da alternanze cicliche tra sonno NREM e REM ogni 60-90 minuti per il resto della notte. In genere, la maggior parte del sonno N3 si verifica durante la prima metà della notte, e gran parte del sonno REM nella seconda metà. Quando valutiamo il sonno, i parametri sono due: la quantità e la qualità. A proposito di quantità, pensare alle canoniche 8 ore è fuorviante perché queste si riducono tra la fase di addormentamento, le eventuali interruzioni notturne e il risveglio progressivo. La qualità riguarda ciò che resta. La fase di sonno profondo (N3) dovrebbe occupare circa il 25 per cento del tempo complessivo, tenendo a mente che sotto le 6 ore entriamo in uno stato di privazione. Per verificare il nostro livello di stress non c’è forse modo migliore che monitorare il proprio sonno (in commercio non mancano diverse tipologie di cosiddetti tracker in grado di farlo). Qualora si dovessero registrare alterazioni del ritmo di sonno appurare che: Non si usino smartphone o tablet a letto. Alterano la fase per addormentarsi fino a 45 minuti, rallentando la produzione di melatonina. Non ci siano interruzioni notturne. Possono interrompere il ciclo del sonno e non far entrare la persona in fase N3. Le interruzioni sono solitamente causate da tre fattori: Necessità di urinare. Limitare l’acqua dopo le 19:00. Necessità di bere. Migliorare l’idratazione durante il giorno e diminuire alcol e sale a cena. Necessità di mangiare. Probabile eccesso di zuccheri ad alto indice glicemico a cena e limitato apporto di fibre. Recupero diurno Ma non è tutto. Spesso la qualità del sonno riflette la qualità della veglia. Le ansie, le preoccupazioni e i disagi vissuti di giorno si traducono in alterazioni importanti nella frequenza cardiaca, nella pressione arteriosa e nel ritmo respiratorio. Possiamo misurare questi aspetti? Certamente sì: grazie all’HRV, ovvero la variabilità cardiaca, che esprime l’intervallo di tempo tra un battito e l’altro, oltre a fornire una serie di indicazioni utili. Ma, in termini pratici, come migliorare il sonno e soprattutto il recupero? In primo luogo, facciamo chiarezza sul perché non riusciamo a riposare identificando i fattori di disturbo, quindi lavoriamo sulla nostra giornata inserendo delle pause, purché siano pause effettive e non fittizie, senza spostare l’attenzione sul cellulare, i social, le notifiche o peggio ancora, errore madornale, parlando di lavoro. Le pause sono pause: uscire e parlare d’altro. Nel caso ci risulti difficile, programmiamo le pause: il nostro cervello necessita di almeno tre forme di riposo. Riposo sociale Uscire con gli amici può stancare, ogni interazione sociale richiede un’attenzione continua verso gli altri. Questo è tanto più faticoso quando ci troviamo in un bar o in un ristorante, in un ambiente rumoroso, circondati da amici ma anche da tanti sconosciuti. Per contraltare, concediamoci momenti di solitudine e completa inattività per riordinare i pensieri e smaltire le emozioni, soprattutto quelle che ci affaticano. Riposo sensibile Le emozioni scandiscono le nostre giornate ma non sono prive di conseguenze: alcune sono ad alta intensità energetica, compaiono nel momento sbagliato, con troppa frequenza, e non sono giustificate. Tutto ciò chiama in causa ingenti reazioni biochimiche, che richiedono, allo scopo di metabolizzarle, molta energia dal cervello e dal corpo nel suo insieme. La soluzione? Porsi in uno spazio calmo e rilassante: il cervello, che ha una grande capacità di adattamento, risponderà all’ambiente sereno che ci circonda riducendo naturalmente il livello di ansia. Anche l’alimentazione esercita una influenza sostanziale nella qualità del sonno. Cibi troppo elaborati, o più in generale il cibo spazzatura, complicano la digestione, generano ansia e costringono il cervello a fare gli straordinari. Riposo sensoriale L’uso dei nostri sensi, soprattutto dell’udito, fa lavorare il cervello in modo costante. Passeggiare in un parco, rifugiarsi diversi minuti al giorno in una stanza tranquilla e lontano dal telefono favorisce il risposo di qualità inducendo il cervello a secernere dopamina, che provoca un senso di leggerezza e serenità. 2.7.3: la regola d’oro Procedere con il giusto ritmo nel corso della giornata ci permette di avere più energie, stare bene con noi stessi e “staccare” mentalmente. Questa è la mia regola aurea. 2: ogni due ore (massimo) prendere una pausa di non più di tre minuti dalla occupazione in corso (a meno che non siamo impegnati in un intervento chirurgico o una mansione che non può essere interrotta per nessun motivo), fare due passi, sgranchire gambe e schiena, bere un bicchiere d’acqua e pensare alla bellezza della vita, nonostante tutto. 7: ogni sette giorni (di solito la domenica) vivere emozioni corroboranti riservando il proprio tempo (qualche ora) a chi ci dedica il suo e, perché no, ogni tanto anche a noi stessi, da soli, facendo qualcosa che ci piace o esplorando nuove esperienze. Quando stiamo con noi stessi o con i nostri affetti in queste parentesi emozionanti, mettiamo a tacere il cellulare, notifiche comprese. 3: ogni tre mesi, prendersi qualche giorno di vacanza completa, lontano da tutti e da tutto, e del tutto offline: al bando Internet anche in questo caso. Mi rendo conto che questa mia semplice formula può muovere al sorriso, ma in realtà la neuroscienza ci ricorda che l’iperconnessione intossica la nostra mente. Abbiamo bisogno di staccare sia per ritrovare le nostre performance ottimali sia per migliorare la qualità del sonno nel recupero notturno. 4.4.4.4. Probabilmente vi direte che sto dando i numeri, in realtà mi riferisco a piccoli schemi utili e pratici che vengono adottati nello sport e facilmente memorizzabili per i giocatori, ancoraggi da duplicare nella cornice delle diverse strategie di gara. La formula del quattro volte quattro si basa sul controllo del ritmo respiratorio nella gestione delle transizioni emotive ed è particolarmente indicata nelle giornate caotiche. Conosciamo bene il ruolo che le emozioni esercitano nella vita, ma forse ancora non abbiamo piena coscienza di quanto la respirazione ci possa aiutare a gestirle. Ne discuterò più approfonditamente in un capitolo successivo. Spesso ci troviamo a saltare da una riunione a un’altra, da una telefonata a un’altra, da un’email a un’altra, portandoci dietro sia le positività della precedente, sia i turbamenti che minacciano di compromettere i risultati a venire. Questa respirazione è molto efficace nella gestione delle nostre transizioni. Cosa fare: Inspirare dal naso per 4 secondi. Trattenere il respiro per 4 secondi. Espirare dal naso o dalla bocca per 4 secondi. Trattenere il respiro per altri 4 secondi. Chiuso questo cerchio, che in realtà deve essere visualizzato come un quadrato, da cui il nome di “Box Breathing”, ripetere dalle cinque alle otto volte. Tale respirazione, apparentemente semplice, deve essere completata con l’inserimento di una piccola frase di ancoraggio nella/e fase/i di apnea, cioè quando si trattiene il fiato. La piccola parola chiave deve rispondere a tre requisiti fondamentali: breve, positiva, imperativa, come: “Ok, ci sono” oppure “ Forza, Mike”. Un suggerimento: allenatela, ripetetela, sperimentatela, fatela vostra, interiorizzatela e vi accorgerete che sarà il vostro toccasana prima di entrare in riunione o prima di dover sostenere una situazione complessa. Power Nap La classica pennichella italiana è tornata oggi alla ribalta con un nome più moderno e accattivante, una durata ben precisa e la capacità di apportare benefici a livello lavorativo e non solo. Il Power Nap è un breve riposo diurno che termina prima del sopraggiungere del sonno profondo. Il suo potere è quello di “rigenerarci”. Questa tecnica, oltre a dare energia in pochi minuti, è in grado di: Accrescere la produttività e la capacità di risolvere i problemi, aiutando il cervello a lavorare con maggiore efficienza. Migliorare la memoria, la concentrazione e l’attenzione. Sollevare l’umore, riducendo fatica e stanchezza. Ridurre lo stress e il rischio di infarto e ictus. Migliorare la pressione arteriosa e aiutare nel controllo del peso corporeo. Perché il Power Nap sia realmente efficace è necessario osservare alcuni accorgimenti, come la location, la tecnica e soprattutto il tempo. L’ideale sarebbe trovare uno spazio tranquillo, confortevole, preferibilmente buio, con una temperatura ottimale. Si può mettere in sottofondo musica rilassante, ma è molto più importante spegnere cellulari e computer, o altri dispositivi in grado di distrarre. Uno stratagemma consigliato e apparentemente controintuitivo consiste nell’assumere caffeina poco prima del sonnellino, circa 200 mg, possibilmente non tostata, in modo che faccia effetto di lì a circa 30-45 minuti, quando verrà assorbita dall’organismo rendendoci meno intorpiditi al risveglio. È opportuno pianificare il Power Nap calcolando la durata e fissando la sveglia affinché il sonnellino non si prolunghi oltre i 15/20 minuti. Come sempre, si inizia concentrandosi sul proprio respiro, e rilassando a poco a poco le diverse parti del corpo. Ascolta l’audio Power Nap all’indirizzo www.roiedizioni.it/risorse-se-respiro-posso. Recupero notturno Come ho anticipato, se fossimo in grado di gestire i recuperi diurni, avremmo sicuramente un miglioramento di quelli notturni poiché ottimizzeremmo i parametri dell’HRV. Cosa fare allora per migliorare ancora di più la qualità del nostro sonno? Iniziamo con l’esporre quanto sarebbe meglio non fare, pertanto sfatiamo alcuni miti. L’ecologia ambientale, insieme all’igiene del sonno, consiste in un insieme di cautele finalizzate a migliorare la qualità delle nostre dormite: Evitare cene così definite “pesanti”, cibi ipercalorici di difficile digestione. Prediligere alimenti con una maggior componente di carboidrati che stimolando il picco glicemico possono causare una maggior sonnolenza, o alimenti che contengono triptofano (il tacchino, il latte, il cioccolato, le arachidi, i formaggi, lo yogurt, la ricotta, l’alga spirulina, i semi di sesamo o le verdure come l’indivia, i cavoli, gli asparagi, i fagiolini, la lattuga, la bieta, gli spinaci, le zucchine ecc.) e favoriscono la produzione della serotonina, che svolge un’azione calmante. Astenersi da attività fisica ad alta intensità nelle ore serali, perché stimolano l’adrenalina e la risposta cardiovascolare, accelerando frequenza cardiaca e pressione arteriosa. No all’uso prolungato di tablet, smartphone o esposizione a luci più o meno intense, per esempio stazionando per ore davanti al televisore. Tutto questo rallenta la produzione di melatonina, che favorisce il sonno. Prediligere una buona lettura sotto lampade a luce calda con musica rilassante, temperatura e qualità dell’aria (intorno ai 19 °C e purificata) controllate, un materasso smart, un cuscino adeguato… e altri piccoli accorgimenti. Fondamentalmente dobbiamo imparare a rilassarci, attraverso due categorie di esercizi: quelli di respirazione e quelli di rilassamento. Le tecniche di respirazione intervengono sul controllo psico- emotivo e sono di per sé esercizi di rilassamento sia superficiale che profondo poiché lo inducono in maniera pratica e immediata. Sono molto potenti, quando le padroneggiamo. Ne parlerò più avanti. Al momento mi limito a suggerire di: chiudere gli occhi e portare l’attenzione solo al respiro inspirare ed espirare attraverso il naso, qualora risultasse difficile, inspirare dal naso ed espirare dalla bocca; cercare di prolungare la fase di espirazione a un tempo doppio rispetto all’inspirazione; portare l’attenzione alla respirazione addominale e visualizzare il percorso dell’aria sia durante la fase di IN che durante la fase di ES. Suggerisco di farsi cullare dall’audio Percezione del respiro (www.roiedizioni.it/risorse-se-respiro-posso). Venendo alle tecniche di rilassamento, attualmente le più affermate sono il Rilassamento muscolare progressivo di Edmund Jacobson e il Training autogeno di Johannes Heinrich Schultz. Consideriamole una alla volta. Il Rilassamento muscolare progressivo è particolarmente indicato per chi soffre di disturbi del sonno, in quanto induce un riposo muscolare intenso che concilia l’addormentamento, ma è anche raccomandato per combattere lo stress quotidiano e mitigare rabbia e aggressività. Questa tecnica prevede che il soggetto, in primo luogo, sviluppi la capacità di riconoscere lo stato di tensione muscolare. Per fargli raggiungere questo obiettivo il terapeuta gli insegna a percepire la differenza tra tensione e rilassamento, attraverso ripetuti esercizi di contrazione volontaria e prolungata di varie zone del corpo, fino a quando il soggetto avrà sviluppato la capacità di avvertire contrazioni muscolari anche minime. Una volta che avrà imparato a percepire la tensione dei vari gruppi muscolari, sarà in grado di rilassare i muscoli non interessati al movimento che sta effettuando, nonché di applicare in ogni attività la sola quantità di tensione muscolare necessaria. L’essenza della tecnica consiste nel mettere in tensione secondo tempi predefiniti alcune parti del corpo e in seguito rilassarle. Jacobson affermava che notare la sensazione di tensione e di rilassamento, nel momento in cui si smette di contrarre il muscolo, aiuta il soggetto a provare una piacevole sensazione di benessere corporeo, che si traduce nel suo equivalente psicologico. Il maggiore campo di applicazione di questa tecnica, che migliora significativamente la qualità della vita di chi ne fa un uso regolare, consiste nel trattamento dei disturbi psicovegetativi (o psicosomatici). La tensione generale molto elevata può esacerbare stati somatici spiacevoli (es. emicrania, somatizzazioni, attacchi di vomito e dolore cronico). Questa tecnica può essere inoltre utile anche per: Tensione generale molto elevata che esacerba stati somatici spiacevoli. Cura di ansia, fobie e disturbi dell’umore. Gestione dello stress: momenti di stress elevato (es. problemi al lavoro, difficoltà economiche, lavorative, familiari, affettive). Trattamento dell’insonnia. Supporto per affrontare situazioni importanti (prima di una riunione, un intervento in pubblico, una competizione sportiva ecc.). Ascolta l’audio Rilassamento muscolare progressivo per applicare al meglio la tecnica (www.roiedizioni.it/risorse-se-respiro-posso). Training autogeno significa “allenamento che si genera” (dal greco, genos) da sé (greco: autos). Consiste nell’apprendimento e nell’allenamento costante di una serie di esercizi di rilassamento di tipo autoindotto. Le immagini mentali, raggiunto il rilassamento fisico, inducono visualizzazioni piacevoli e rilassanti per richiamare sensazioni legate ai cinque sensi e possono essere a carattere generale o specifiche per sintomi particolari. Una volta appreso, il Training autogeno può essere utilizzabile senza limitazioni in diversi frangenti della vita quotidiana. Messo a punto da Johannes Heinrich Schultz nel 1932, è considerato una delle tecniche di rilassamento più efficaci nella cura dell’ansia, dell’insonnia, delle somatizzazioni e dello stress. Come recita la quarta di copertina di uno dei suoi libri fondamentali: “Con l’allenamento sistematico agli esercizi di questa tecnica di autodistensione psichica e somatica è possibile smorzare, risolvere, eliminare sintomi disturbanti, mobilizzare attitudini interiori che non riuscivano a realizzarsi spontaneamente, smantellare resistenze che impedivano il ristabilirsi di equilibri funzionali alterati, trasferire dinamismi positivi negli strati più profondi della personalità, decondizionare situazioni patologiche anche da tempo stabilizzate.”[1] Gli esercizi di rilassamento fondamentali si suddividono in inferiori e superiori. Nei primi l’attenzione mentale viene rivolta a particolari sensazioni corporee, nei secondi a particolari rappresentazioni mentali. Gli esercizi di rilassamento sono sei, i primi due detti “fondamentali”, gli altri quattro “complementari”: Esercizio della pesantezza, che agisce sul rilassamento dei muscoli. Esercizio del calore, che agisce sulla dilatazione dei vasi sanguigni periferici. Esercizio del cuore, che agisce sulla funzionalità cardiaca. Esercizio del respiro, che agisce sull’apparato respiratorio. Esercizio del plesso solare, che agisce sugli organi dell’addome. Esercizio della fronte fresca, che agisce a livello cerebrale. In ambito clinico, il Training autogeno è utile nella cura di ansia, insonnia, emicrania, asma, ipertensione, attacchi di panico e di altre condizioni (coliti, gastriti, dermatiti…) più o meno gravi. Ricopre un ruolo importante per atleti, sportivi e studenti, in quanto favorisce il recupero delle energie permettendo una migliore gestione delle proprie risorse. Migliora la concentrazione e l’ascolto del corpo e contribuisce al conseguimento di alte prestazioni mantenendo il giusto equilibrio psicofisico. Il Training autogeno costituisce un valido supporto per contrastare gli effetti dello stress psicofisico, aiuta a gestire le emozioni, a instaurare un dialogo con il proprio corpo e a portare equilibrio e tranquillità dentro se stessi. Fatti guidare dall’audio Training autogeno all’indirizzo www.roiedizioni.it/risorse-se-respiro-posso. 1 J.H. Schultz, Il training autogeno, vol. 2, Feltrinelli, Milano 1999. I Fantastici 6: nutrizione Viviamo un’epoca incredibilmente contraddittoria, siamo iperalimentati ma iponutriti. Cerchiamo di fare subito chiarezza, facendo luce per prima cosa sulla differenza tra alimentazione e nutrizione. Ovviamente non sono la stessa cosa, anche se sembrano due termini intercambiabili. In realtà i significati sono profondamente diversi e si riferiscono a due modalità differenti di consumo del cibo. L’alimentazione è un’azione volontaria, una scelta attinente al cibo che desideriamo consumare, dettata dalla vista, dal gusto, dall’olfatto o anche da un pensiero. È quindi un’azione che dipende dalla nostra volontà. Scelgo di mangiare un piatto di spaghetti o una bistecca, un pezzo di pane anziché dei grissini: ingerisco sulla base di una scelta. La nutrizione riguarda i contenuti, i nutrienti di un alimento che ho deciso di consumare. Dal momento in cui mangio una pizza e questa passa dall’esofago, l’organismo utilizza i nutrienti necessari eliminando gli scarti. L’alimentazione è volontaria mentre la nutrizione è involontaria. Io decido che cosa mangiare, ma dopo l’ingestione non ho più alcun potere di decidere cosa assimilare o meno: il grasso, gli zuccheri ecc. La nutrizione deve fornire un apporto di principi nutritivi assunti attraverso il cibo. Ogni alimento si contraddistingue per alcune specifiche sostanze basilari, cioè lipidi, glucidi e protidi. Queste ultime sono in grado di favorire il corretto sviluppo dell’organismo e di contribuire contemporaneamente al sostentamento della salute. Con il termine nutrizione quindi si intende l’assunzione da parte del nostro corpo di tutti quegli alimenti necessari a favorire salute e benessere. Il problema oggi è saper scegliere gli alimenti che contengano validi nutrienti. Non ho l’ambizione di scrivere particolari novità nell’ambito del food. Ormai ci sono talmente tanti libri, tante ricette e così tanta divulgazione in merito che provare a elaborare qualcosa di nuovo è sostanzialmente impossibile. Desidero però trasmettere argomenti semplici ma molto efficaci per chi ha l’obiettivo di vivere meglio ed essere campione della propria vita, muovendo in primo luogo dalla respirazione. Come possiamo ottimizzare le nostre performance operando sul piano dell’alimentazione? Premesso che non esiste una risposta uguale per tutti, partiamo ancora una volta dalla scienza, la base più solida per ogni scelta consapevole sul benessere. A chi dovesse replicare che la scienza è in continua evoluzione, e talvolta apparentemente in contraddizione con se stessa, posso solo rispondere che non ha tutti i torti, ma che in realtà, come diceva Leonardo da Vinci, essa “è dettata dall’esperienza” e pertanto deve essere sempre contestualizzata nel momento storico in cui viviamo. Solo così facendo possiamo forse fare chiarezza sulle miriadi di informazioni e notizie che ci bombardano ogni giorno. Alcune certezze: senza cibo non possiamo vivere, esso ci procura tutte le sostanze che permettono al nostro organismo di lavorare in salute. Ciò detto, oggi nel mondo quasi un miliardo di persone soffre la fame e di contro oltre due miliardi di persone sono obese o in sovrappeso, condizioni queste che sono alla base di numerose patologie, e non solo. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) stima che nel mondo ci siano 11 milioni di decessi ogni anno legati all’eccesso di cibo. La cattiva alimentazione uccide più del fumo. Un decesso su cinque nel 2019 è legato a malattie cardiovascolari, cancro e diabete. Una dieta povera e squilibrata ne è la causa principale. Un altro aspetto su cui desidero porre l’attenzione è la forte correlazione tra DNA e cibo, e tra quest’ultimo e la sostenibilità ambientale. Ciò che mettiamo nel piatto influenza la salute del pianeta oltre che la nostra. In altre parole, tutto ciò che fa bene a noi lo fa anche al pianeta e viceversa. Oggi alimentarsi correttamente dovrebbe tutto sommato risultare abbastanza semplice, considerato che i media sono affollati di specialisti prodighi di consigli, eppure siamo ancora piuttosto indietro. Anzi, i dati sono preoccupanti. Il 2019 ha visto la pubblicazione di uno studio sconcertante che attesta il malcostume alimentare pervasivo: troppo sale, troppe carni processate e bevande zuccherate e di contro troppo pochi cereali integrali, frutta secca e semi, grassi buoni come gli omega 3 e oli vegetali. Frutta e verdura hanno la parte di Cenerentola. Il drammatico bilancio pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet racconta che una dieta squilibrata sta uccidendo sempre più persone. Quanto alla nostra famosa dieta mediterranea – patrimonio UNESCO – probabilmente essa è seguita e amata più altrove che in Italia! Nel Bel Paese un bambino su quattro è in sovrappeso, e uno su sette obeso. Pessima notizia, anche considerando che purtroppo il 50 per cento degli adolescenti obesi rischia di esserlo anche da adulto. Secondo una stima recente, pubblicata su una rivista pediatrica, nel XXI secolo, i bambini obesi registrano un potenziale calo dell’aspettativa di vita. Il rischio è che muoiano prima dei genitori. È l’era del food ma ci si ammala mangiando. Aria L’aria è il nostro primo alimento e medicamento, come sosteneva Ippocrate di Coo, il padre della Medicina Scientifica. Quando parliamo di respirazione è giocoforza pensare alla qualità dell’aria. Se ci alimentiamo circa dalle tre alle cinque volte al giorno, nello stesso arco di tempo ci nutriamo di aria circa 20.000 volte. Immaginate quindi l’impatto che questo esercita sulla qualità della nostra vita. Partiamo dal presupposto che un essere umano non potrebbe sopravvivere né tanto meno funzionare se smettesse di respirare anche “solo” per pochi minuti. In realtà, per darci un senso di soffocamento è sufficiente una manciata di secondi. L’aria che respiriamo non è un’unica sostanza chimica, ma un miscuglio di gas e di microscopiche particelle solide e liquide. I due componenti principali sono l’azoto, che ne costituisce quasi i quattro quinti (78,08 per cento) e l’ossigeno, poco più di un quinto (20,94 per cento). Vi sono poi altri gas quali: argo, neon, elio, cripto, xeno, in ragione dello 0,94 per cento, e l’anidride carbonica che rappresenta lo 0,03 per cento. Teniamo a mente che oltre il 50 per cento dell’ossigeno di tutto il pianeta viene prodotto dal plancton marino (presente nelle acque superficiali raggiunte dalla luce del sole) tramite la fotosintesi clorofilliana. Gli oceani sono a tutti gli effetti un polmone della terra, insieme ovviamente alle foreste. L’ossigeno, il nostro carburante primario, è un gas privo di colore, odore e sapore. Per essere preciso, dovrei chiamarlo comburente in quanto è una sostanza che agisce come agente ossidante di un combustibile in una reazione di combustione. Senza di esso non ci sarebbe alcuna combustione. Il suo continuo rifornimento è indispensabile per fornire a ogni cellula del nostro organismo il mezzo per convertire le sostanze nutrienti in energia. In poche parole, l’ossigeno è l’elemento più importante, poiché il primo e basilare per il mantenimento del metabolismo umano. Senza ossigeno la macchina umana non va avanti. Noi italiani viviamo purtroppo in una zona con alto tasso di inquinamento a causa del riscaldamento, del traffico e di altro ancora. Che cosa possiamo fare per migliorare la qualità della nostra aria? L’anidride carbonica, che di per sé non è un inquinante né tanto meno tossica (la produce anche l’uomo), è uno dei maggiori responsabili dell’effetto serra, che provoca il fenomeno del riscaldamento globale, uno dei principali problemi ambientali della nostra era. Com’è noto, il sistema economico contemporaneo si basa principalmente sullo sfruttamento delle risorse fossili (carbone, petrolio, gas naturale), la cui combustione rilascia in atmosfera una quantità aggiuntiva di CO2 rimasta imprigionata per milioni di anni nel sottosuolo. A questo si aggiunge che la deforestazione, l’espansione agricola e urbana nelle zone forestali sta riducendo il polmone verde del pianeta e accelerando la desertificazione, che a sua volta riduce la capacità naturale dell’ambiente di assorbire la CO2 tramite la fotosintesi clorofilliana. Il quadro non è ancora completo. La plastica dispersa nell’ambiente rilascia alcuni gas serra durante il lento processo di decomposizione, dunque, contribuisce all’effetto serra e al riscaldamento globale. Il Mediterraneo, che a mio avviso è il mare più bello del mondo, registra uno dei più alti livelli di inquinamento marino da plastica del mondo. Ogni anno più di 200 milioni di turisti visitano le sue coste causando un aumento del 40 per cento dei rifiuti presenti nelle acque in seguito alla dispersione di plastiche monouso. Ma la CO2 non viene prodotta solo dalle autovetture o dalle fabbriche. I nostri comportamenti quotidiani hanno un peso decisivo. Mangiando una ciliegia fuori stagione inquiniamo cento volte di più che consumando una mela di stagione: 1 kg di ciliegie fuori stagione che arriva dall’altra parte del mondo fino al nostro piatto inquina in termini di CO2 quanto un nostro viaggio in macchina da Milano a Bologna. Sono tanti i piccoli accorgimenti che dovremmo osservare ogni giorno per migliorare la qualità dell’aria per noi stessi e per gli altri, e in generale per il pianeta. Se in una casa di medie dimensioni d’inverno teniamo una temperatura media di circa 20 °C, l’impatto è di 17 kg di CO2 al giorno, pari all’emissione di una automobile che percorra 100 km. Se poi portiamo la temperatura a 24 °C, l’impatto è di 24 kg di CO2 al giorno, l’equivalente di 140 km. Molto meglio indossare un maglione in più. Stesso discorso quando d’estate accendiamo l’aria condizionata. La temperatura del pianeta si innalza e la domanda di raffrescamento cresce, aggravando il riscaldamento globale. Vogliamo rinfrescarci e, paradossalmente, ci riscaldiamo ancora di più. Per migliorare la qualità dell’aria dobbiamo inoltre stare attenti a quello che mangiamo. Partiamo dai cibi più ecologici: l’impatto ambientale della frutta è sicuramente uno dei più bassi nel sistema degli alimenti perché “fa tutto” la natura, anche se quello che impatta sono il trasporto, il packaging e la refrigerazione. Una mela di stagione prodotta in Italia ha un impatto ambientale davvero irrisorio, ma 1 kg di ciliegie importate dal Cile produce 21 kg di CO2 per via del trasporto in aeroplano. Diverso è il discorso per le banane che, bene o male, sono sul mercato tutto l’anno. Il loro impatto ambientale è inferiore in quanto, pur venendo dal Sud America, il trasporto avviene normalmente via nave. Inoltre questo frutto ha il vantaggio di essere fornito di una sua confezione naturale. La frutta in serra è molto impattante, normalmente dalle sei alle otto volte più di un frutto coltivato all’aperto. Per 1 kg di pesche di stagione si emettono circa 500 g, mentre per lo stesso peso di pesche da serra l’impatto è circa 3 kg, l’equivalente di 27 km percorsi in auto. Perfino bere acqua può essere dannoso per l’ambiente, dipende dalla fonte. Una bottiglia in plastica da un litro e mezzo di acqua minerale produce 200 g di CO2, mentre se la stessa quantità viene presa dal rubinetto, i grammi sono appena due. L’Italia è il paese che beve più acqua in bottiglia al mondo, seconda solo al Messico. Abbiamo un debole per la carne rossa? Oltre a suggerirvi un consumo massimo settimanale di 500 g (in quantità maggiore può incidere sulla probabilità di sviluppare problemi di salute), ogni chilogrammo produce 26 kg di CO2, quanto emetteremmo in auto sul tragitto Milano-Venezia. La miglior scelta di proteine risulta sotto tutti i punti di vista, tra cui anche quello ambientale, il consumo di legumi (ceci, lenticchie, fagioli) dove per ogni chilo di prodotto l’impatto è pari a 1,7 kg di CO2, ben quindici volte inferiore alle carni rosse. Ora desidero farvi riflettere sulla nostra amata pasta. Può sembrare strano, ma la fase di cottura può raddoppiare l’impatto ambientale rispetto alla produzione. Commettiamo errori superficiali: usiamo troppa acqua, la mettiamo a bollire senza il coperchio, aggiungiamo troppo sale determinando un prolungamento dei tempi di ebollizione… E che dire degli sprechi alimentari? Sprechiamo globalmente circa un terzo del cibo che viene allevato, prodotto, trasportato, cucinato, refrigerato: quasi 1,5 miliardi di tonnellate all’anno di cibo che finisce nella spazzatura in tutto il mondo. Le cause? Le cattive abitudini di milioni di persone, che non conservano i prodotti in modo adeguato, ma anche le date di scadenza troppo rigide, le promozioni che spingono i consumatori a comprare più cibo del necessario, i numerosi passaggi dal produttore al consumatore nelle catene di montaggio dei cibi industriali. Per non parlare dei trasporti. L’impatto di un nostro volo Roma-Milano è di 140 kg di CO2, mentre se viaggiamo in treno è di 24 kg, ben sette volte inferiore. Non trascurabile il tragitto casa/lavoro che ripetiamo tutti i giorni con una media di 5 km all’andata e altrettanti al ritorno. Viaggiando in SUV produciamo 550 kg di CO2 all’anno, con una utilitaria circa la metà, 272 kg, con una macchina ibrida intorno ai 183 kg, un terzo di un SUV. Chi va a lavorare con un bel macchinone è come se ci andasse con tre ibride contemporaneamente. Utilizzare i trasporti pubblici porta il consumo a 100 kg all’anno, un quinto dei SUV. Non me ne vogliano i proprietari. La situazione è complessa ed è mio desiderio riflettere solo su aspetti che io stesso fino a poco tempo fa non conoscevo… o facevo finta di non conoscere. Ovviamente un’azione che tutti potremmo compiere è scegliere energia rinnovabile, anziché prodotta da fonti fossili. Sono 1.380 i chilogrammi di CO2 risparmiati in un anno usando energia pulita (impatto calcolato su una famiglia media), il che corrisponde a 12.000 km di percorrenza autostradale. Tenuto conto che la percorrenza annua di un italiano medio su territorio nazionale è di 11.000 km, con un buon 78 per cento di automobilisti che rimane sotto i 10.000, se una famiglia si converte all’energia rinnovabile, in sostanza annulla le emissioni che produce utilizzando l’auto per dodici mesi. Una piccola azione distribuita su larga scala crea effetti globali giganteschi. Se solo 2 milioni di persone in Italia scegliessero l’energia pulita, avremmo una riduzione di 3 miliardi di chilogrammi di CO2, corrispondenti ad aver “riforestato” oltre 750.000 campi da calcio. Ossigeno: il principale nutriente L’ossigeno è il nutriente essenziale del corpo umano per la produzione di energia cellulare. Tutto il metabolismo corporeo è condizionato dall’ossigeno introdotto con la respirazione, trasportato e assimilato dalle cellule in ogni istante di vita. Accusare una riduzione di ossigeno nel sangue e nelle cellule equivale a essere una candela che brucia sotto una campana di vetro. Dopo un po’ si spegne. Le conseguenze di una ridotta assunzione di ossigeno sono molteplici: Si avverte poca energia; ci si sente più stanchi, pigri, si ha poca voglia di essere attivi e dinamici. Il metabolismo cellulare si riduce. Si ha difficoltà a dimagrire. Per bruciare un solo grammo di grasso occorrono ben due litri di ossigeno all’interno delle cellule. L’organismo si “inquina” e invecchia prima. La carenza di ossigeno all’interno di una cellula genera una modulazione genica capace di produrre proteine infiammatorie, le citochine. Senza addentrarci in discorsi troppo complessi, il concetto di base è che il consumo di ossigeno è un parametro vitale per assicurare la salute e la longevità. Per conoscere la propria domanda di ossigeno giornaliero (MET – Metabolic Equivalent) si può eseguire il seguente calcolo: 3,5 ml di ossigeno al minuto × kg peso corporeo reale × 1 minuto. Esempio: una persona con un peso corporeo reale di 70 kg, ha il suo MET pari a: 3,5 × 70 × 1 minuto = 245 ml ogni minuto. Moltiplicando questo valore per 60 minuti si ottiene 14.700 ml per un’ora, cioè 14,7 litri di ossigeno in un’ora. La domanda di ossigeno di questa persona sarà di 352,8 litri al giorno, a riposo. Ovviamente aumenterà con l’attività motoria. Pertanto alla base di una corretta alimentazione, vi deve essere una sana respirazione. Cosa fare? Introdurre i giusti volumi di ossigeno, anche con semplici esercizi di respirazione o di ginnastica respiratoria. Il più idoneo è quello di modulare il respiro in tre tempi: Inspirate profondamente. Trattenete il respiro per una manciata di secondi. Espirate tranquillamente. Eseguite questi tre semplici passaggi per almeno due minuti, con calma, in un ambiente ben areato due o più volte al giorno. Potreste percepire un senso di vertigine, capogiro o simile, che indica l’arrivo di maggior volume di ossigeno al cervello, ma come è arrivato al cervello così raggiunge tutto l’organismo assicurando un netto miglioramento del metabolismo cellulare. Attenzione a: Fumo: è al primo posto tra le cause che riducono la capacità di trasportare ossigeno. Massa addominale adiposa: una circonferenza girovita superiore a 102 cm per l’uomo e 88 cm per la donna limita la respirazione diaframmatica e causa un respiro superficiale non in grado di attivare i giusti volumi di aria e di ossigeno. Inoltre è responsabile della sindrome dell’apnea notturna con il risultato finale di creare ulteriore carenza di ossigeno. Questo quadro può generare cattiva qualità del sonno, con cali di salute fisica e mentale decisamente importanti. Vivere in ambienti chiusi. Stress psicologico, che può procurare una riduzione dei volumi di ossigeno all’interno dell’organismo. I fondamentali dell’alimentazione Non occorre essere specialisti nella scienza dell’alimentazione per seguire alcuni piccoli suggerimenti. E nemmeno per fornirli. I nutrienti, le sostanze alimentari di cui un organismo necessita per il normale sviluppo e il mantenimento di uno stato di buona salute, si dividono in due principali tipologie: i macronutrienti, cioè le proteine, i lipidi (grassi) e i carboidrati, necessari per la produzione di energia e per la crescita, e i micronutrienti, cioè le vitamine (A, B, C, D, E, K), i minerali (calcio e fosforo) e gli oligoelementi (ferro, zinco, selenio e manganese), che migliorano il valore nutritivo degli alimenti e incidono profondamente sul nostro benessere. A essi si devono aggiungere l’acqua e le fibre alimentari. Oltre ai macro e micronutrienti è importante tenere in considerazione anche le calorie, cioè l’energia, espressa in kilocalorie, che ciascun alimento permette di produrre attraverso il metabolismo e che sono determinate dai macronutrienti. Tanto per intenderci, un grammo di carboidrati vale circa 4 kcal, così come un grammo di proteine, mentre 9 sono le kcal prodotte da un grammo di grassi. Ma oggi contare le calorie non è una buona idea. La caloria è l’unità di misura dell’energia. 1 kcal corrisponde alla quantità di energia necessaria per far aumentare la temperatura di 1 kg di acqua distillata da 14,5 °C a 15,5 °C. Tutto qui. Eppure troppo spesso attribuiamo alle calorie un’importanza eccessiva, ben al di là del loro essere una mera unità di misura. Ci lasciamo condizionare nella scelta di un alimento dalla quantità di calorie che esso contiene, senza considerare che a qualificarlo è soprattutto l’insieme dei nutrienti. Ecco perché quando parliamo di alimentazione non è opportuno concentrarsi troppo sull’apporto calorico. Lo stesso alimento può essere “utilizzato” in modo diverso da due persone diverse, che quindi possono assorbire una diversa quantità di calorie con conseguenze diverse. Dipende dalle caratteristiche della persona (per esempio dalla lunghezza dell’intestino, dalla composizione del microbiota) ma anche dalle modalità con cui un alimento viene preparato (cotto, crudo, fermentato, processato…). Difficile quindi stabilire a priori la quantità di calorie che un alimento potrà fornire. Di solito per appurarlo ci affidiamo alla lettura dell’etichetta, ma attenzione, anche in questo caso il margine di errore può toccare un abbondante 20 per cento. La differenza tra il valore nutrizionale effettivo e il valore dichiarato è dovuta a diversi fattori, tra cui la variazione stagionale, la lavorazione delle materie prime, il processo di fabbricazione e il metodo di analisi nutrizionale. A ben vedere, quindi, il conteggio delle calorie può essere molto fuorviante. Se ci basiamo esclusivamente sul conteggio delle calorie, 100 kcal di gelato equivalgono a 100 kcal di frutta, ma sappiamo bene che per il nostro organismo la differenza è drammatica. La composizione dell’alimento, la presenza di fibre, carboidrati, lipidi e proteine influenza moltissimo la quantità di energia necessaria per la sua digestione e quindi il dispendio calorico. Per esempio, digerire un cibo ricco di proteine richiede un dispendio energetico rilevante. Scegliere quali alimenti mangiare sulla scorta del solo apporto calorico può decisamente andare a discapito del piacere di mangiare. Gusto, odore, sapore e consistenza di un cibo sono le caratteristiche immediate che utilizziamo per compiere le nostre scelte alimentari. Per quanto sia importante non trascurare la qualità e le proprietà nutrizionali, non possiamo dimenticare i tanti altri aspetti che influiscono sulle nostre decisioni. Di sicuro a prevalere non dovrebbe essere il solo calcolo delle calorie, che anzi rischia di ispirare inutili privazioni, sentimenti ossessivi e sensi di colpa. Impariamo a leggere le etichette: questa la prima vera cosa da fare. Se queste descrivono il vero contenuto di un alimento, la confezione è il suo “vestito migliore”, ovvero quello che l’azienda produttrice vuole mostrarci. Se a volte etichette e veste esterna hanno qualcosa in comune, altre volte trasmettono messaggi completamente diversi. Un passo fondamentale per capire bene cosa stiamo mangiando è saper leggere le informazioni scritte sui prodotti per capire se fanno al caso nostro. Non è difficile, se sono in grado di farlo io, può farlo davvero chiunque. Scherzi a parte, ecco le indicazioni principali di cui andare in cerca: L’ordine degli ingredienti: sono disposti sempre in ordine decrescente di quantità, e i primi tre sono i principali. Questo ci aiuta a scegliere i prodotti più sani. Ricordiamoci sempre che la lista degli ingredienti è in ordine quantitativo; quindi, se stiamo comprando qualcosa che non è un dolce e il secondo ingrediente nella lista è lo zucchero, meglio porci due domande. Occhio quindi allo zucchero: la dose giornaliera consigliata è di 25 g al giorno. Attenzione, spesso questa voce si annida sotto altre voci, per esempio “carboidrati di cui zuccheri”. Prodotti integrali: prediligere prodotti con la dicitura “farina integrale” a quelli con la dicitura “farina di tipo 00, crusca di frumento”. Attenzione al sale: evitare alimenti con più di 1,2 g di sale per 100 g di prodotto. Il sale non fa bene al nostro organismo, tanto per cominciare perché causa problemi di pressione sanguigna, ma non solo. Ci tengo a precisare che l’OMS raccomanda di non superare i 5 g di sale (pari a circa 2 g di sodio) al giorno. In pratica meno di un cucchiaino raso. Colazione da campione Non c’è niente di più sbagliato che saltare la prima colazione, il pasto più importante della giornata, soprattutto per i bambini. Il corpo è stato a digiuno per diverse ore e al mattino necessita di risvegliarsi e ricaricarsi per affrontare la giornata. Una ricerca della Harvard University del 2017 attesta che fare colazione riduce il rischio di malattie cardiovascolari. Tra i risultati di questo studio spicca fra gli altri che gli uomini che avevano saltato la colazione avevano un rischio del 27 per cento più elevato di sviluppare una malattia coronarica rispetto a chi invece aveva assunto un buon pasto mattutino. Gli studiosi ipotizzano un legame indiretto: saltando la colazione, aumenta la fame nervosa, si tende a mangiare di più nelle ore pomeridiane e serali, favorendo quindi un funzionamento metabolico nemico del cuore, con un maggior rischio di incorrere in obesità, pressione alta, iperglicemia, insulinoresistenza e colesterolo alto. Una colazione corretta apporta all’organismo il 20 per cento delle calorie totali della giornata; quindi, cerchiamo di concedercela per proteggere il nostro cuore ma soprattutto per non accumulare chili di troppo ed essere lucidi e concentrati mentalmente. A mio avviso i tre accorgimenti fondamentali da osservare circa quello che reputo essere il pasto principale sono: Cercare di limitare il più possibile i prodotti a base di zucchero e farine industriali raffinate e, più in generale, i prodotti ad alto indice glicemico: lo zucchero sale rapidamente nel sangue, ma altrettanto rapidamente scende, portandoci ad avere, a metà mattina, cali di forze e di concentrazione e attacchi di fame. I carboidrati raffinati sono gustosi, ma non fanno bene. Prima di tutto, sono calorie vuote che non apportano nessun valore nutrizionale e in più, molti carboidrati raffinati, contengono alti livelli di sodio. Oltre ad aumentare il livello di sete, questa quantità extra di sodio causa la ritenzione dei liquidi, imponendo lavoro extra al cuore per pompare il sangue. Aumenta anche la pressione sanguigna, il che genera gonfiore e aumenta il livello di stress. Usare prodotti di tipo integrale, per es. fiocchi di cereali con frutta secca e fresca con yogurt, una crema di riso o un porridge di avena o, più semplicemente, una fetta di pane vero integrale con due noci e un velo di marmellata. Se amiamo la colazione salata, mangiamo una fetta di pane integrale con un po’ di formaggio fresco o con un uovo alla coque. Idratarsi: beviamo una bella tazza di tè leggero e con poca teina (come il tè bancha o matcha), oppure un latte di mandorla o vaccino (se lo digeriamo bene), o ancora una spremuta di frutta e/o verdura. Provate a cambiare la vostra colazione e fate caso alla differenza: sarete più energici, mangerete di meno ai pasti successivi e il vostro cuore vi ringrazierà. Questo non vuole dire abbandonare il caffè, che anzi è un toccasana per la salute se bevuto a stomaco pieno, in quantità moderate e senza aggiunta di dolcificanti. Cosa mangiare e perché? Le raccomandazioni per una sana alimentazione emesse dai diversi organismi scientifici possono variare seppur di poco e sono in genere il frutto di anni di ricerca. Il più noto di tutti i modelli è senza dubbio la piramide alimentare, proposta nel 1992 dagli esperti del Dipartimento dell’Agricoltura Statunitense allo scopo di illustrare la frequenza consigliata per consumare gli alimenti. Quelli alla base della piramide sempre presenti a tavola, quelli in cima da consumare raramente. Le componenti della dieta mediterranea trovano un’efficace sintesi nella piramide alimentare, recentemente aggiornata. Essa dispone, dalla base verso l’apice, gli alimenti da consumare con frequenza decrescente nella settimana (in basso i più salutari, in alto quelli con cui è bene non esagerare) e una serie di raccomandazioni nutrizionali valide per la popolazione adulta. La dieta mediterranea è facile da seguire e non presenta alimenti totalmente proibiti. Molto sinteticamente, le sue caratteristiche principali sono: Abbondanza di cibi di origine vegetale: frutta, verdura, pasta, pane, cereali, patate. Consumo prevalente di cibi freschi e di stagione, quasi sempre di provenienza locale (es. frutta di stagione, verdure appena colte). Utilizzo dell’olio d’oliva come principale fonte di grassi. Consumo quotidiano di formaggi e/o yogurt, ma in quantità limitate. Pesce, carne bianca, uova: qualche volta a settimana. Dolci ricchi di zuccheri o di grassi saturi poche volte a settimana. Consumo di carne rossa piuttosto limitato, presente nella dieta qualche volta al mese. Negli anni, questa piramide è stata modificata per rimanere al passo con le nuove scoperte della medicina e per soddisfare le esigenze di diverse popolazioni e di contesti culturali differenti. Oggigiorno è corretto, tuttavia, ampliare la visuale per parlare di doppia piramide alimentare: “Cibo ed ecosostenibilità”. Quanto può essere importante l’impatto delle nostre scelte alimentari sul pianeta? Un tema molto attuale, ma sono ancora troppo poche le persone che prestano davvero attenzione alle proprie scelte quotidiane per salvaguardare l’ambiente. Perché le nostre scelte alimentari incidono sulla salute del pianeta? L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), afferma che l’alimentazione, per quanto possa sembrare impossibile, di fatto ha un impatto ambientale addirittura superiore a quello delle industrie e dei trasporti. Secondo alcuni calcoli della FAO, infatti, la filiera produttiva dell’industria delle carni, contribuisce fino a quasi un quarto dei gas serra prodotti annualmente dalla Terra. Ogni anno, la produzione e il consumo di carne emettono circa 8 miliardi di tonnellate di CO2. Nella foresta amazzonica, ad esempio, l’88 per cento della foresta abbattuta è stata adibita a pascolo e la deforestazione continua a un ritmo sempre crescente. Alla luce di quanto appena detto scopriamo che, per garantire aree adibite a pascolo, l’uomo ricorre al disboscamento. Questo dovrebbe far sorgere immediatamente una semplice domanda: “Quali sono i rischi?” Qui di seguito i quattro più rilevanti: Rischi idrogeologici. L’eccessivo abbattimento degli alberi aumenta notevolmente il rischio di frane, alluvioni e smottamenti del terreno. Variazioni climatiche. La deforestazione modifica, tra le altre cose, la mappa dei venti, questo implica mutamenti regionali del clima. Minore biodiversità. La distruzione delle foreste causa l’estinzione di numerose specie vegetali e animali, con conseguente impoverimento genetico. Effetto serra. Ovvero un’eccessiva concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera. La società moderna, purtroppo, non ha saputo fare tesoro dell’esperienza dell’uomo antico, il quale sapeva osservare, valutare e rispettare la terra. L’uomo moderno, non si percepisce parte di un microcosmo nel macrocosmo, si vede totalmente slegato e libero da ogni responsabilità nei confronti della sua “casa”. Questa concezione, però, non potrà durare molto; ecco perché è necessario che ognuno di noi faccia qualcosa immediatamente. Il tempo a disposizione per salvare la Terra non è molto. Qualcosa, però, la possiamo ancora fare, ed è proprio da questa evidenza che l’associazione di promozione sociale “L’Ordine dell’Universo” vuole coltivare un ritorno alla semplicità, all’ascolto della terra, delle stagioni e del corpo. In questi anni ci stiamo battendo perché venga riconosciuto all’uomo il diritto al cibo adeguato. Lo stiamo facendo con convinzione, dedizione, amore e passione. Ma questo non è sufficiente. È vitale che ognuno di noi, nel “piccolo” della propria quotidianità metta in atto scelte più consapevoli nel rispetto di sé, degli altri e dell’ambiente. Come indirizzare le scelte alimentari affinché non abbiano un impatto troppo importante sul pianeta? Una rappresentazione grafica del rapporto fra impatto ambientale di diverse categorie alimentari e la loro frequenza di consumo suggerita all’interno di una dieta bilanciata. Per apprendere quali sono le scelte alimentari a basso impatto ambientale è possibile affidarsi a una coppia di piramidi: alimentare e ambientale. La piramide alimentare poggia sulle linee guida della “dieta mediterranea”, mentre la piramide ambientale è stata creata analizzando l’impatto sull’ambiente dei suddetti alimenti. Quest’ultima può essere di grande aiuto per ognuno di noi, nelle scelte alimentari, per salvaguardare la nostra salute e il pianeta. Per concludere vorrei lasciarvi con un passaggio tratto da una lettera scritta dal Capo Seattle, leader della tribù dei nativi americani Duwamish, al Presidente degli Stati Uniti. La trovo un ottimo spunto di riflessione: “Insegnate ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri, che la terra è nostra madre. Qualunque cosa capita alla terra, capita anche ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su se stessi. Questo noi sappiamo: la terra non appartiene all’uomo, è l’uomo che appartiene alla terra. Questo noi sappiamo. Tutte le cose sono collegate, come il sangue che unisce una famiglia. Qualunque cosa capita alla terra, capita anche ai figli della terra.” Piatto unico Chi cerca una rappresentazione più immediata, meno precisa ma indubbiamente più facile e fruibile, può seguire il modello del piatto unico della “sana alimentazione”, cioè il piatto equilibrato elaborato dalla Harvard School of Public Health, che indica quale dovrebbe essere la composizione migliore di ogni pasto. Riassumendo, metà piatto sarà composto da vegetali e frutta, con preferenza per la verdura, meno ricca di zuccheri rispetto alla frutta, mentre l’altra metà si dividerà a sua volta in due parti uguali composte da cereali integrali e proteine sane (animali, ma soprattutto vegetali). Solo rimanendo fedeli a questo schema abbiamo un’idea davvero precisa di come modulare i nostri pasti, seguendo il principio che dal pranzo alla cena è bene diminuire la quantità, e rispettando sempre le tre M: meno, meglio e misto. Consumando diversi tipi di cerali integrali (pane integrale, pasta integrale, riso integrale), limitando i cereali raffinati e scegliendo proteine come pesce, legumi e pollame, limitando le carni rosse a circa 500 g settimanali, come pure salami e insaccati, siamo certi di avere un’alimentazione ricca, equilibrata e completa, anche perché le verdure saranno gli alimenti “più presenti”. Le famose cinque porzioni al giorno di cui tre di verdure e due di frutta (una porzione di verdura corrisponde a 200 g, mentre una di frutta a 150 g) è l’ideale. A tavola non dovrebbero mai mancare almeno 400 g di vegetali, una vera soglia di sicurezza. Il “piatto equilibrato”, ovvero il rapporto migliore fra tipologie di alimenti per ogni pasto, come elaborata da uno studio della Harvard School of Public Health (https://www.hsph.harvard.edu/nutritionsource/healthy-eating-plate/). La letteratura scientifica degli ultimi decenni ci aiuta a capire perché la dieta mediterranea protegga la salute. Innanzitutto essa prevede il consumo di alimenti a bassa densità calorica come verdura, frutta, cereali e legumi, che in più assicurano un apporto di fibre che protegge dall’insorgenza di molte malattie croniche. Inoltre alcuni composti presenti quasi esclusivamente in alimenti di origine vegetale producono effetti positivi sull’organismo. Basti citare due componenti che si dimostrano particolarmente importanti per la prevenzione di molte malattie: i polifenoli contenuti nell’olio extravergine di oliva e il licopene presente nel pomodoro, due grandi protagonisti della dieta mediterranea. Insomma, esistono oramai numerose prove scientifiche a testimonianza dell’efficacia di questo modello nutrizionale, non solo nella prevenzione di disturbi cardiovascolari, ma anche nella protezione da malattie come cancro e diabete, oltre che nella prevenzione dell’obesità. Senza contare che la dieta mediterranea riduce il rischio di osteoporosi e problemi cognitivi, e ha un impatto sull’umore, riducendo notevolmente il rischio di depressione. E a proposito del nostro stato mentale, possiamo mantenere giovane e in forma il cervello curando alcuni aspetti specifici dell’alimentazione. Nel cibo che portiamo a tavola ci sono preziosi nutrienti davvero utili a tale scopo, anche se presenti in dosaggi minimi: rame e zinco, per esempio, sono indispensabili per mantenere attivi i collegamenti tra le cellule cerebrali. Ecco allora che i vegetali a foglia verde, i mirtilli, le noci, l’olio di oliva, i cereali integrali, il pesce, i legumi, il pollame e il vino (ma non più di un bicchiere al giorno) sono nostri alleati per mantenere il cervello in forma e brillante. Da evitare, o quanto meno limitare, formaggio, dolci, cibi fritti e carne rossa. A tal proposito vorrei sfatare alcuni miti. Mangiare carne per diventare forti Dopo il dibattito scatenatosi in seguito alla pubblicazione nel 2015 della monografia dell’International Agency for Cancer Research (IARC), resta ben poco da aggiungere in merito alla cancerogenicità della carne rossa e lavorata (insaccati e salumi). Mi preme tuttavia sottolineare come nel 2018 sono arrivate conferme dal World Cancer Research Fund/American Institute for Cancer Research sull’associazione tra il consumo di carne rossa e il possibile aumento del rischio di tumore del colon retto, ma anche dei tumori nasofaringei, del polmone e del pancreas. Pertanto ridurre, contenere, limitare questi alimenti è senza dubbio una scelta di salute, tant’è che è stato dimostrato come con l’aumento di consumo di carne lavorata salga anche il rischio di morte prematura per malattie cardio-vascolari. Non me ne vogliano i miei amici macellai o allevatori, mi preme solo sottolineare alcuni dati scientifici. Io mangio carne, ma poca, e l’ho ridotta molto negli ultimi anni. Gli esperti WCRF/AICR suggeriscono di consumare meno di 500 g di carne rossa o lavorata alla settimana. Importante è anche la cottura che gioca un ruolo chiave nel determinare i rischi per la salute. Infatti grigliate, barbecue e altri tipi di cottura che espongono i cibi a temperature molto elevate generano la produzione di sostanze (come le amine per esempio) che aumentano i rischi per la salute. Meglio optare per metodi di cottura più sani, come al vapore o al forno. Nel dubbio, suggerisco come sempre una zuppa di fagioli che, come diceva mio nonno, rappresenta il pasto povero dei signori! Di seguito vi riporto una tabella che reputo davvero interessante, anche per i più scettici. Ovviamente si tratta di una stima approssimativa, che tuttavia ci permette a grandi linee di sfatare alcune convinzioni infondate e soprattutto di porre l’attenzione su come un’alimentazione bilanciata e improntata a un maggior consumo di vegetali sia indubbiamente più salutare. E non solo per noi ma anche per il pianeta, considerate l’impronta idrica e la produzione di CO2. Secondo quanto riportato dalla Fondazione Barilla Center for Food and Nutrition (BCFN) per ottenere 1 kg di carne bovina si consumano 19.525 litri di acqua, mentre per 1 kg di ortaggi di stagione ne bastano 335 l. Il concetto che mi preme sottolineare è come, a oggi, gli alimenti amici della salute siano anche gli amici dell’ambiente: tant’è che alla base della piramide alimentare ci sono frutta e verdura, seguite da cereali (meglio se integrali) e legumi che rappresentano la cima della piramide ambientale e della sostenibilità. Per tale motivo, la dieta mediterranea nel 2010 è stata dichiarata Patrimonio Immateriale dell’Umanità dell’UNESCO. Regola da medaglia d’oro Desidero ora condividere tre strategie utili a consolidare i principi alla base dell’alimentazione salutare con quelli inerenti alla gestione consapevole del respiro e della mente. Adottandoli sarà più facile mangiare più sano ed equilibrato. Create un rituale da adottare prima di mangiare. Imponetevi di seguirlo ogni volta che aprite la bocca per introdurre il cibo, anche quando apparentemente non ne avete bisogno. Un esempio: fare tre respiri profondi prima di cominciare il pasto. Se trasformerete questo gesto in un’abitudine, fino al punto di renderlo automatico, lo adotterete anche quando starete per assumere un cibo che può nuocervi. I respiri rallentano gli impulsi nervosi e aiutano la ragione a prevalere sul desiderio, abbassano la tensione e portano serenità. Allenatevi a ripetere a bassa voce una frase che diriga la vostra attenzione e concentrazione verso gli obiettivi che vi siete prefissati. Potrebbe per esempio essere: “Mangio solo ciò che mi fa bene.” Rafforzate la scelta compiuta, associandola al piacere che ne trarrete a lungo termine. In questo modo non verrà associata alla sensazione di compiere un sacrificio privandovi di qualcosa, ma a una vittoria. A questo scopo consiglio di ripetere altre due o tre respirazioni lente e profonde affermando: “Questa scelta permetterà il vero piacere, non è un sacrificio ma una vittoria, non è una rinuncia ma una conquista.” Cibo e stress Quando si vive una situazione stressante si cade più facilmente nella tentazione di scegliere piatti rapidi, facili e con ogni evenienza non molto sani. A loro volta, le incaute scelte alimentari possono innescare problemi di salute o di altro genere, e la tensione emotiva cresce ancora di più. Come interrompere questo circolo vizioso? Secondo un’indagine condotta dal centro di ricerca Human Highway su un campione di italiani tra i 18 e i 64 anni che accedono al web almeno una volta a settimana, otto persone su dieci sono colpite da stress. In molti casi, la valvola di sfogo è il cibo, sia perché quando si vive in situazioni di stanchezza cronica è difficile prestare attenzione alle regole della sana alimentazione, sia perché ingerire vivande è fonte di gratificazione consolatoria istantanea. Con “mood food” ci si riferisce a tutto quel cibo che esercita un’influenza sull’umore. Alcuni alimenti possono dare sollievo perché ricchi di quei nutrienti indispensabili per una buona reazione dell’organismo e del cervello in particolari momenti di pressione, come le vitamine del gruppo B12, la vitamina A, l’acido folico e sali minerali come potassio e magnesio. Le carni in generale, le uova, i legumi, le verdure garantiscono il giusto apporto di vitamina B12 e di acido folico, che favoriscono la formazione cellulare. Fondamentali per rafforzare le difese del nostro organismo anche frutta e verdura che apportano vitamina A. Tra la carne è particolarmente consigliata la bianca (pollo e tacchino) grazie anche all’ampia disponibilità di amminoacidi e triptofano, che aiutano il corpo a rilasciare serotonina, la quale contribuisce a farci sentire più calmi e felici. Il cioccolato è considerato un cibo antistress per eccellenza a causa delle sue proprietà stimolanti, ma stiamo attenti: uno studio pubblicato dall’International Journal of Health Sciences attesta che i polifenoli contenuti nei chicchi di cacao riducono i livelli degli ormoni dello stress, soprattutto del cortisolo, ma la dose raccomandata è al massimo di 40 g al giorno di cacao. Badiamo inoltre che sia presente almeno al 70 per cento nel cioccolato che consumiamo. Vediamo insieme quali alimenti possono alleviare lo stress. Noci: di tutta la frutta oleosa, le noci sono lo snack ideale quando si è stressati perché hanno molteplici benefici. Sono ricche di acidi grassi omega 3 e riducono i rischi di depressione. Le noci contengono anche triptofano, un amminoacido coinvolto nella produzione della serotonina, l’ormone del buonumore. Si possono consumare come uno snack oppure mischiare nell’insalata o insieme all’avena a colazione. Avena: a proposito di avena, non è solo la colazione sportiva perfetta ma è ideale anche per chi ha una giornata molto piena. L’avena è ricca di fibre che aumentano il livello di zuccheri nel sangue lentamente così da farci sentire sazi a lungo senza avere picchi glicemici. Consiglio: cospargete di cannella e aggiungete un cucchiaino di miele. Così oltre a ridurre lo stress, rinforzerete il sistema immunitario. Verdure a foglia verde: se non avete molto tempo per pranzo, la tentazione di comprare un hamburger è tanta. E invece che ne dite di un’insalata? È leggera, non appesantisce lo stomaco e sazia per ore. Alcune verdure, come gli spinaci, contengono anche acido folico. Il nostro corpo ha bisogno di questo tipo di vitamina B per costruire la dopamina, un neurotrasmettitore che libera dallo stress e allevia i sintomi della depressione. Mirtilli: questo frutto è ricco di antocianine, che sono antiossidanti. I mirtilli contengono anche vitamina C, che rinforza il sistema immunitario. Non sorprende che le persone stressate si ammalino più spesso. In assenza di mirtilli freschi vanno bene anche quelli congelati. Probiotici: i probiotici contribuiscono alla diminuzione degli stati di ansia nonché alla riduzione dello stress, come dimostra una ricerca tutta italiana condotta dai ricercatori dell’Università di Tor Vergata, pubblicata sul Journal of Translational Medicine, così come anche gli studi condotti da Takada e Kato-Kataoka, in Giappone, i quali hanno mostrato gli effetti sullo stress e sulla sintomatologia a esso associata in giovani studenti giapponesi dopo l’assunzione quotidiana di prodotti contenenti il ceppo probiotico Lactobacillus Casei Shirota, con una comprovata riduzione dello stato d’ansia. Frutta e verdura: l’arcobaleno del benessere La natura non lascia niente al caso. Perfino i colori inviano dei messaggi precisi a chi li sa cogliere. Questo vale anche per la frutta e la verdura. Il colore è determinato dalla produzione di pigmenti come la clorofilla, che dona il verde, o i carotenoidi, che determinano il colore giallo-arancio. Questi sono indispensabili per la crescita e lo sviluppo di tutti i vegetali, permettono di innescare la fotosintesi e di attirare o proteggersi dagli insetti. I pigmenti producono inoltre numerosi benefici per la salute. Rosso Il rosso è foriero di proprietà antiossidanti, protettive di pelle, cuore e sistema vascolare dalle relative patologie. Frutta e verdura rossa devono il loro colore alla presenza di licopene e antocianine, che troviamo in pomodori, rape, ravanelli, peperoni, barbabietole, anguria. Frutti come arance rosse, ciliegie e fragole, sono ricchi di carotenoidi, che si sono guadagnati la fama di potenziatori della vista e sono utili per tenere a bada il colesterolo (quando troppo alto può favorire l’insorgenza di aterosclerosi). Il licopene è ormai noto per le sue proprietà antiossidanti, antitumorali e antinvecchiamento. Si tratta di un carotenoide di cui il pomodoro è l’ortaggio più ricco. È considerato un vero e proprio spazzino dei radicali liberi. Le antocianine sono sostanze colorate molto studiate per i loro effetti benefici, hanno un’azione antiossidante, sono in grado di stimolare la risposta immunitaria e riducono l’infiammazione. In generale, gli alimenti rossi sono una fonte importante di vitamina C, che promuove la produzione di collagene e aiuta a ottimizzare l’assorbimento del ferro. Altri benefici includono una maggiore resistenza ed elasticità dei vasi sanguigni, una più rapida cicatrizzazione delle ferite e un incremento dell’attività del sistema immunitario. Giallo e arancione L’elemento essenziale di questo gruppo sono i flavonoidi, responsabili di un’azione di antinvecchiamento cellulare. Numerosi i vantaggi dovuti all’alto quantitativo di beta-carotene, che è un importante precursore della vitamina A e viene assorbito in modo naturale dai grassi, a differenza di quanto avviene per altre sostanze di origine artificiale. Proteggono inoltre l’organismo dall’azione dei radicali liberi. Anche i vegetali gialli sono ricchissimi di vitamina C, specialmente peperoni e agrumi. Da notare anche la funzione anticoagulante, antinfiammatoria e antitumorale perpetrata dalle antocianine, contenute soprattutto nelle arance. Il potassio, il principale minerale intracellulare, è essenziale per lo svolgimento delle normali funzioni delle cellule, ma è anche molto importante per la regolazione della pressione sanguigna poiché favorisce l’eliminazione del sodio aiutando ad abbassare la pressione. Verde Il verde, anche nell’alimentazione, si associa al ritrovamento dell’equilibrio psicofisico dopo le fatiche della giornata. Sul piano delle proprietà nutritive risulta davvero prezioso. La causa risiede nella presenza di clorofilla, potente antiossidante. Questa funzione è conciliata anche dal ricco contenuto di vitamina C, specialmente in broccoli, kiwi, prezzemolo e spinaci. Questi ultimi, in genere insieme agli ortaggi a foglia verde, come asparagi, agretti, basilico, bieta, broccoli, cavoli, carciofi, cetrioli, cicoria, lattuga, rucola, zucchine e uva bianca sono ricchissimi di acido folico, una vitamina del gruppo B, nota soprattutto per le donne in gravidanza (ma non solo), in quanto svolge un’azione preventiva sulle malattie degenerative ed è in grado di abbassare i livelli di omocisteina che in eccesso si associa a un aumentato rischio cardiovascolare. Altra sostanza della quale sono forieri questi alimenti è il magnesio, che facilita l’assorbimento dei sali minerali e il metabolismo di proteine e carboidrati. Importante anche per regolare la pressione del flusso all’interno dei vasi sanguigni. Gli alimenti verdi sono ricchi inoltre di carotenoidi. Blu-viola Appartengono a questo gruppo di frutta e verdura di colore blu-viola: melanzane, radicchio, fichi, frutti di bosco (mirtilli, more, ribes), prugne e uva nera. Il colore blu-viola indica la presenza di antocianine e carotenoidi, oltre che di vitamina C, potassio e magnesio. E sono proprio le antocianine che riducono il rischio di insorgenza di malattie cardiovascolari. I mirtilli sono ottimi alleati per la vista, mentre le melanzane, a fronte di pochissime calorie, sono una notevole fonte di magnesio. Bianco Aglio, cavolfiore, cipolla, finocchio, funghi, mele, pere, porri, sedano appartengono alla famiglia dei prodotti ortofrutticoli di colore bianco. Questi contengono tantissimi microelementi presenti anche negli altri gruppi, potassio e vitamina C, ma si caratterizzano soprattutto per la presenza di composti solforati e quercetina. I composti solforati sono numerosi e hanno tutti un’azione benefica. Tra questi l’allicina, che troviamo nell’aglio e nella cipolla aiuta a tenere sotto controllo il colesterolo e a regolare la pressione sanguigna. La quercitina è un flavonoide che oltre ad avere un’azione antiossidante e antinfiammatoria ha la capacità di abbassare il colesterolo “cattivo”. La funzione principale di frutta e verdura bianche è legata a polmoni e tessuto osseo, che ne risultano rafforzati. Questi alimenti sono ricchissimi di fibre, potassio e sali minerali. Gli isotiocianati, poi, aiutano a contrastare l’invecchiamento cellulare. L’allilsolfuro, contenuto in porri, cipolle e aglio, è indicato per prevenire la formazione di trombi, grazie alla sua capacità di fluidificare il sangue. Non esiste nessun alimento che si possa definire “completo” e che quindi sia in grado di soddisfare da solo le nostre necessità nutritive, ma in natura nulla si trova per caso e mangiare frutta e verdura in porzioni adeguate e di colore diverso è una raccomandazione semplice da tenere a mente. Alternare i colori dei prodotti ortofrutticoli ci permette di variare facilmente l’assunzione di vitamine, sali minerali e sostanze ad azione protettiva, perché a ogni colore corrisponde un diverso contenuto. Pertanto assumere frutta e verdura di colore diverso è il modo ideale di fare il pieno di tutti questi micronutrienti senza ricorrere a integrazioni, ma anzi, deliziandoci con quanto ci offre ogni stagione con una varietà di sapori che vince la monotonia. Il vero campione si riconosce a tavola Nel momento in cui diamo significato a ciò che mangiamo, cambia completamente il nostro approccio all’alimentazione, non più alibi per le nostre sconfitte ma strumento per conquistare nuove vittorie. Due sono le conseguenze immediate di questo atteggiamento: La consapevolezza di vivere la salute non solo come un diritto, ma anche e soprattutto come un dovere. Assumersi la responsabilità. Scegliere ciò che mettiamo nel piatto vuol dire essere allineati con il proprio atteggiamento mentale verso la vita e con i propri valori, orientarsi verso i nostri obiettivi, uniformarsi con il nostro credo. Di conseguenza, se la salute rappresenta il nostro valore, diventa molto semplice avere un approccio positivo e costruttivo verso l’alimentazione, e non solo. Questo non vuol dire vivere una vita “misera” e di restrizioni, anzi tutt’altro, significa averne colto meglio il significato. Ecco delle semplici riflessioni per capire se il mio piatto corrisponde al mio atteggiamento di vita (sono domande che mi pongo in diversi momenti dell’anno e che pongo agli atleti che seguo soprattutto quando hanno momenti di cedimento mentale). 1. Come ti vedi fra dieci anni? Intendo qual è la tua visione di vita (non come posizione lavorativa), ma tu davanti al tuo specchio come ti immagini vorresti essere? Quale la tua salute fisica e mentale: 2. Che cosa fai o vuoi fare oggi per costruire il tuo domani? Che cosa sei disposto a fare? A che cosa sei disposto a rinunciare? Annota tre azioni, rivolte all’alimentazione, che vuoi compiere. a. b. c. 3. C’è qualcosa, o forse qualcuno, che ti impedisce di fare determinate scelte o che ti condiziona? 4. Alla luce delle considerazioni precedenti: scrivi di seguito tre azioni (scelte) che intraprendi ora, o nel breve termine, e che sai che ti porteranno benessere nel lungo termine. a. b. c. 5. Decidi il tuo giorno (uno solo) di “compenso” (sgarro) e rispettalo sempre: L’uomo delfino Ogni fibra del mio essere diceva che dovevo chiudere con l’agonismo. Quel capitolo era concluso. Mi diedi un obiettivo, una data ben precisa, che corrispondeva ai campionati internazionali di apnea a Zara. Partecipai e vinsi. Il mare mi accolse nel suo silenzio confortante, nel quale indugiai più del previsto, tanto da allarmare il mio team. Volevo restare laggiù, dove le sensazioni che provavo si inseguivano multiformi ma piacevoli, un sollievo balsamico. Potevo quasi sentire la risata di Filippo echeggiare in fondo al mare mentre gli davo l’ultimo addio, quello vero. Poi la vita mi richiamò in superficie e io obbedii al suo appello. Una volta in superficie l’ultima bolla di dolore esplose mista a un infinito sollievo e gratitudine. Una felicità che non provavo da mesi mi gonfiò il petto mentre esplodevo in un pianto definitivo, liberatorio. Stop. La parola magica mi echeggiò nella mente come un monito finale. Da quel giorno mi avventurai in un nuovo viaggio di scoperta, alla ricerca dell’armonia che è dentro ciascuno di noi e che nessuno ai miei occhi incarnava meglio del delfino. Ma perché proprio il delfino? È bene ricordare che trascorriamo i nostri primi nove mesi di vita in apnea, all’interno del liquido amniotico, poi, nel momento in cui passiamo al mondo esterno, compiamo il nostro primo vero respiro. Siamo esseri umani, ma prima ancora mammiferi che si sanno adattare all’acqua. Conserviamo nel patrimonio genetico le peculiarità tipiche dei nostri amati amici del blu. Il delfino incarna la purezza, l’innocenza e la bontà naturale. È simbolo per eccellenza dell’evoluzione spirituale, poiché ogni forma di meditazione comincia proprio con il controllo del respiro, che ci permette di raggiungere dimensioni sottili, che abitualmente non percepiamo, accecati come siamo dalla vita frenetica e dai mille pensieri che ogni giorno affollano la mente. Il delfino rappresenta il respiro cioè il legame tra la materia e lo spirito; incarna il ciclo vitale di morte e rinascita. Allenandoci a modificare il respiro, trasformiamo la qualità della nostra vita, miglioriamo il nostro umore e le reazioni emotive, che così spesso ci travolgono impedendoci di affrontare al meglio la nostra vita. Stavo rinascendo. Da allora, per molti anni mi sono dedicato, compatibilmente con il mio lavoro, alla ricerca e allo studio dei delfini selvatici. Sentivo il bisogno di perdermi nella natura, necessitavo di risposte sul mio futuro, sulla morte del mio amico Filippo. Avevo la necessità di evolvere ma non sapevo come. Così domandai ai delfini, che cercai in giro per il mondo nel corso di innumerevoli viaggi: Bahamas, Hawaii, Honduras, Maldive. Paradisi in terra. Qualcuno forse penserà: “Be’, facile per te, con i soldi certamente ti puoi organizzare qualche bel viaggio.” Niente del genere. Ho sempre dovuto organizzarmi con attenzione per andare in terre dove mancavo di qualsiasi appoggio locale, armato solo della mia maschera e della monopinna. Ho perso spesso voli e coincidenze e rinunciato a molte comodità da occidentale viziato, viaggiando con nient’altro che un bagaglio a mano, uno zaino con l’essenziale, per essere autosufficiente con il minimo sindacale. L’atollo di Bimini è un posto noto a chi come me ama l’apnea, in quanto negli anni ’70 c’era stato il leggendario Jacques Mayol per girare alcuni documentari. Lì era risaputo che fosse possibile imbattersi in delfini stanziali della zona e quindi mi ci recai. Il terzo giorno ero completamente affranto. Neanche l’ombra di un delfino. Eppure sapevo di essere nel posto giusto, quanto meno ne ero convinto. Così come ero convinto che incontrarli sarebbe stata la cosa più facile di questo mondo: in realtà mi sbagliavo e anche tanto, forse avevo guardato un po’ troppi documentari. Mi si accostò Jeff (come lo chiamavo io, anche se il vero nome era Geoffrey) il capitano della barca con cui girovagavo, un americano con grandi baffi e grosso come Hulk Hogan. Jeff parlava solo slang americano del sud e molto stretto, capivo meno della metà delle sue parole. Ero in lacrime per la disperazione. Jeff fece una smorfia: “Non ti preoccupare, incontrerai i tuoi delfini, ma credici davvero, ok?” Abbandonai ogni ambizione forzata e con le mie fidate maschera e monopinna mi misi in mare per diventare il delfino che stavo cercando. Mi affidai al mare, dimenticai chi fossi, lasciai che l’acqua prendesse il comando. Passai ore e ore in mare, curiosando e cercando, aspettando, osservando, ascoltando, scrutando ma senza mai perdermi di coraggio, perché sentivo che li avrei incontrati. Dovevo pensare come un delfino, cioè: questo è stato il quid che stravolse il mio modo di muovermi in acqua e mi permise di approcciarmi ai delfini. E dal blu spuntarono le sagome affusolate e biancheggianti di un gruppo di stenelle. Incredulo con il cuore che pompava a mille le accolsi scompostamente, mettendole in fuga. Calma, trova l’armonia, smetti di agitarti e rilassati. Ricorda chi sei e perché sei qui. Misi da parte ogni preconcetto e aspettativa, nessun passato e nessun futuro, solo il presente. Iniziai a muovermi come un delfino. Se volevo interagire con loro dovevo cambiare, adattarmi al contesto e alla situazione. Non avevo a che fare con delfini ammaestrati, non avrebbero risposto a dei comandi, ero io che dovevo entrare a far parte del loro gruppo, apprendere le loro regole, rispettarle e interagire con la debita grazia. Mi trovavo a casa loro. Quello che accade poi, e che conservo per sempre nel cuore, ha dell’incredibile. Trovarmi in mare aperto, solo, con la profondità del blu che mi circonda e veder arrivare due delfini che iniziano a danzare con me. Il feeling è incredibile, mi avvolgono, mi guardano, i nostri occhi sono a pochi centimetri, ci parliamo e iniziamo a respirarci. Sbalorditivo. I nostri respiri diventano sincroni, ci muoviamo in acqua con lo stesso ritmo e ci immergiamo contemporaneamente per poi tornare insieme in superficie a prendere aria. Mi scoprii a parlare con loro mentre si stringevano a me in una sorta di danza acquatica, che poi in realtà equivale a una forma di gioco. Li rassicuravo dicendo loro che li amavo e che potevano stare tranquilli perché ero lì per avere risposte, capire dov’era finito Filippo, perché Nettuno me lo aveva sottratto e cosa dovevo fare, quale strada scegliere, come perdonarmi per il fatto che Filippo non era riemerso proprio nell’unica occasione in cui non ero stato con lui, mentre lui per me c’era sempre stato. Tanti dubbi, tante domande, e in realtà poche risposte. I delfini non erano lì per darmi quello che volevo. Poi, col tempo, ho capito alcuni messaggi che lì per lì mi erano sfuggiti, forse perché troppo assorbito dalle emozioni e forse dal mio “egocentrismo”. I momenti di dolore appartengono alla nostra vita e sono inevitabili, ma l’infelicità può essere una scelta. Non potevo aspettarmi risposte da nessuno, dovevo capire, intuire, osservare e cogliere il messaggio che le vicissitudini della vita mi riservavano per farne tesoro. L’uomo cresce attraverso sofferenza e/o saggezza. Il dolore è maestro di vita, ci obbliga a tirare fuori il meglio di noi stessi. Così pure la saggezza: relazionarsi con persone di spessore, i cosiddetti mentori, ci ispira al cambiamento, non importa quanto difficile, con nuova energia, nuove risorse. Impossibile restare chiusi nel dolore, dobbiamo evolvere. Quando sono cambiato, l’ho fatto per me stesso. Ed è successo quando ho capito che non potevo diventare tutto ciò che volevo. Ma potevo diventare ciò che sono. I Fantastici 6: nutraceutica Quale mistero si cela dietro questa parola? In realtà nulla di diverso dal concetto di “supplementi” o “integratori”, ma con una terminologia medica più appropriata. Sicuramente nello sport si conoscono molto bene gli integratori, ma ci si può chiedere se servano anche nella vita di tutti i giorni. Vi porto la mia esperienza e conoscenza sull’argomento e soprattutto su ciò che dallo sport possiamo traslare nella quotidianità. Il termine “nutraceutica”, coniato nel 1989 da Stephen L. De Felice (fondatore e presidente della The Foundation for Innovation in Medicine), deriva dall’unione di due parole: Nutrizione + Farmaceutica = Nutraceutica e può essere riferito a varie tipologie di prodotti, compresi nutrienti isolati, integratori alimentari, prodotti erboristici, pasti sostitutivi e persino alimenti trasformati (come i cereali, le zuppe e alcune bevande). I prodotti nutraceutici sono derivati alimentari ai quali si attribuiscono, oltre al valore nutrizionale di base, uno o più benefici aggiuntivi. Possono essere definiti come preventivi delle malattie croniche, migliorativi della salute, ritardanti il processo di invecchiamento, favorenti la longevità o sostenitori di alcuni apparati o funzioni corporee. Non sono quindi farmaci, né tanto meno sostanze miracolose in grado di guarire, poiché non costituiscono una terapia, anche se vengono prescritti magari dopo una malattia, bensì rappresentano un concentrato di nutrienti utili a fornire diversi benefici. I requisiti dei prodotti nutraceutici sono: Potenziamento nutrizionale. Assorbimento ottimale. Alta disponibilità. In parole semplici, sono un concentrato di nutrienti che arrivano prima e meglio alle nostre cellule, cosa che non sempre avviene attraverso la nostra alimentazione. Gli obiettivi per cui assumere i nutraceutici sono: Potenziare le difese interne ed esterne. Rallentare i processi di invecchiamento. Aumentare il benessere: ridurre il senso di stanchezza, fatica, concentrazione, spossatezza, irritabilità e migliorare il tono dell’umore. Il professor Bruce Ames, autorità dell’Università di Berkeley nel campo della biochimica e della biologia molecolare, autore di circa seicento lavori scientifici di altissimo profilo, ha dimostrato come le carenze dei micronutrienti possano, alla lunga, portare a deficit metabolici, che comportano un invecchiamento precoce (cerebrale e fisico) e a diverse malattie. Questo tipo di carenze è sottovalutato dalla classe medica, perché non porta a ipovitaminosi complete (come lo scorbuto) quindi non sfocia in malattia. Ma come è risaputo, la popolazione occidentale si nutre spesso di ‘‘cibi’’ raffinati e/o iperlavorati industrialmente, ipercalorici ma privi dei micronutrienti essenziali, privi di fibre, minerali, vitamine e oligoelementi. Se fossimo tutti capaci di fare la spesa in maniera regolare, leggere le etichette dei prodotti, cucinare gli ingredienti in maniera corretta, e se gli alimenti avessero una qualità diversa, se tutti noi avessimo più tempo, e se tutti noi riuscissimo a vivere meno di corsa… probabilmente questo piccolo capitolo non servirebbe a nulla. Ma c’è un ma. Anzi diversi: Se da una parte oggi non esistono più macrocarenze nutrizionali che portano allo sviluppo di patologie come lo scorbuto o la pellagra, dall’altra non vengono riconosciute quelle microcarenze croniche, spesso latenti, che non raggiungono mai un livello così intenso da creare una patologia importante e conclamata, ma sono sufficienti ad alterare il metabolismo, ad aumentare il rischio di sviluppare patologie e ad accelerare l’invecchiamento. È noto che è aumentata l’insorgenza di malattie croniche, soprattutto di carattere neurodegenerativo. La qualità degli alimenti non è mai stata così scarsa. I nostri cibi sono ricchi di una sola cosa: calorie, e sono poveri dei veri nutrienti. Oltre a questo, c’è da considerare anche la cottura, che altera le concentrazioni dei nutrienti stessi; quindi, non si può dare per scontato che l’alimentazione equilibrata ci fornisca tutto quello di cui il nostro organismo necessita. A livello teorico, ma solo a livello teorico: sfido chiunque, bambini compresi, a mangiare ogni giorno cinque porzioni di verdura e frutta! La prospettiva di vita oggi è decisamente più prolungata, per cui il valore della nutrizione assume un ruolo importante in termini di efficacia per farci vivere meglio e non in condizioni di riserva. Gli standard di vita sono più alti ma anche più intensi. Lo stress non è più acuto e momentaneo, ma cronico, costante e quotidiano, e logora l’organismo, che di conseguenza consuma maggiormente determinati nutrienti. È una condizione che non esisteva in passato, e i medici non associano carenze nutrizionali all’aumento dei livelli di stress, sempre più presente sin dall’età adolescenziale. Non siamo sportivi professionisti, che vengono seguiti da specialisti dell’alimentazione e che dosano gli alimenti in base al carico di lavoro, al periodo di allenamento e altri fattori, ma siamo atleti della nostra vita e difficilmente ci rivolgiamo a un sanitario a meno di un forte desiderio, una spiccata motivazione o un vero e proprio problema. Per questi motivi, ci tengo a puntualizzare alcuni aspetti che ritengo che tutti dobbiamo conoscere. Un primo dato importante è che oltre il 70 per cento della popolazione è carente di vitamina D, e io ero nel novero. E oggi sappiamo bene come non solo la densità ossea, ma anche le difese immunitarie e il tono dell’umore sono correlati a questa vitamina, la cui assunzione non è facilissima. Questa vitamina, che è in realtà un ormone, è scarsamente presente negli alimenti (alcuni pesci grassi, latte e derivati, uova, fegato e verdure verdi), l’unica eccezione è data dall’olio di fegato di merluzzo (mio padre tutt’ora continua a dirmi che quando era bambino veniva costretto a berlo, suo malgrado). La vitamina D viene in gran parte sintetizzata dal nostro organismo attraverso l’esposizione ai raggi solari e va integrata solo in situazioni particolari, ma conoscerne i livelli è un toccasana per la prevenzione. Così pure l’omocisteina, ancora oggi troppo spesso trascurata: un aminoacido che se presente in eccesso nel circolo sanguigno causa danni addirittura superiori rispetto al colesterolo. L’omocisteina viene infatti considerata un fattore di rischio indipendente, poiché da sola è in grado di aumentare l’incidenza di malattie cardiovascolari a prescindere dalla presenza di altri fattori predisponenti. Valori di poco superiori alla norma si correlano a un aumentato rischio di aterosclerosi, ictus e infarto del miocardio. Se da una parte, l’omocisteina si associa, così come il colesterolo, a un aumentato rischio di malattie cardiovascolari, a differenza di quest’ultimo cresce il rischio di molte altre patologie sia del sistema cardiocircolatorio (trombosi venosa, embolia polmonare) che non (malformazioni fetali, decadimento mentale, Alzheimer, fratture spontanee). L’organismo si difende dall’eccesso di omocisteina grazie alla vitamina B9 o acido folico, un micronutriente di origine perlopiù vegetale che ha la capacità di neutralizzarne gli effetti negativi. Questa vitamina, importante anche per evitare la spina bifida durante lo sviluppo del feto, è presente soprattutto nelle verdure a foglia verde (lattuga, broccoli, spinaci, asparagi), nel fegato, nel latte, in alcuni cereali e in alcuni frutti come le arance, i kiwi e i limoni. Non tutto l’acido folico contenuto negli alimenti si trova però in una forma biodisponibile e buona parte viene persa durante la cottura o durante l’esposizione prolungata a luce/calore. Proprio per questo motivo chi mangia cibi precotti o riscaldati è predisposto a una carenza di acido folico e di altre vitamine termolabili. L’abitudine di tenere in caldo le vivande tende infatti a degradare tali vitamine per la prolungata esposizione al calore. Nella popolazione italiana i livelli di assunzione giornaliera di acido folico sono leggermente inferiori rispetto a quelli consigliati, per questo motivo è bene consumare ogni giorno adeguate quantità di frutta e verdura (almeno cinque porzioni). Un consumo di acido folico superiore al fabbisogno è comunque privo di effetti collaterali, essendo la vitamina B9 idrosolubile, quindi eliminata per via urinaria se presente in eccesso. Ma attenzione a fattori quali tabagismo, ipertensione, sedentarietà, obesità, diabete, colesterolo alto che comunque sono fattori determinanti e imprescindibili dal nostro benessere in ottica di prevenzione. La vera salute non è l’assenza di malattie ma la sensazione percepita e l’evidenza oggettiva di un completo benessere psicofisico e relazionale, un tesoro che va custodito con attenzione e che è minacciato, fra le altre cose, dall’inquinamento ambientale e da stili di vita autolesionisti. In particolare, agenti fisici (radiazioni ultraviolette, campi elettromagnetici ecc.), agenti chimici (benzene, idrocarburi clorurati, diossina, pesticidi, plastiche, prodotti della combustione del fumo di sigaretta, metalli pesanti ecc.) e agenti biologici (virus, batteri, funghi, tossine ecc.) minano continuamente le funzioni del nostro organismo fino a favorire o causare l’insorgenza di numerose malattie, non solo attraverso un’interazione diretta con i nostri sistemi biologici ma anche indirettamente, contaminando l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e gli alimenti di cui ci nutriamo. Gravi le ripercussioni che tutto ciò comporta sulla qualità della nostra vita. Persino i pensieri che evochiamo e le emozioni che proviamo, infatti, possono risultare negativamente condizionati. D’altra parte lo dicevano anche gli antichi romani: “Anima sana in corpore sano.” Bene, tutto questo ha un nome medico, stress ossidativo: la conseguenza diretta dell’azione dannosa esercitata da quantità abnormemente elevate di radicali liberi sulle cellule e sui tessuti dell’organismo. Ma cosa sono i radicali liberi? In estrema sintesi, si tratta di atomi o raggruppamenti di atomi in grado di reagire con qualsiasi molecola di cui è costituita una cellula (persino il DNA), danneggiandola con conseguenze spesso disastrose. Una piccola quota di radicali liberi viene prodotta anche in condizioni normali, per effetto del metabolismo cellulare. Quando, però, la loro proliferazione è molto elevata, come nell’iperalimentazione o nello sforzo fisico elevato e prolungato, o quando comunque eccede la capacità di difesa dei vari sistemi antiossidanti, si configura uno stato di stress cui possono conseguire alterazioni più o meno significative sulle nostre cellule. Le cause possono essere esterne o interne all’organismo. Oltre alle cause esterne sopra descritte, vorrei porre l’attenzione su quelle interne, spesso associate a un mal di vivere che parte da noi stessi e sfocia spesso in rabbia, frustrazione, depressione, senso di stress, per arrivare poi a tutti quegli sforzi, e non solo fisici, ma soprattutto mentali, che se protratti nel tempo, ci portano inevitabilmente a cattiva alimentazione e a numerose malattie (es. obesità, diabete ecc.). In condizioni di buona salute, il nostro organismo riesce a prevenire il danno da radicali liberi grazie a sistemi di difesa naturali, gli antiossidanti. Gli antiossidanti sono agenti in grado di neutralizzare l’azione ossidante dei radicali liberi. Alcuni sono endogeni, cioè vengono prodotti dal nostro organismo di cui sono parte integrante. Altri quali per esempio le vitamine C ed E, sono esogeni, cioè devono essere introdotti dall’esterno, per esempio con una corretta alimentazione. Nel nostro organismo, dunque, esiste un delicato equilibrio fra produzione (esterna o interna) e “smaltimento” dei radicali liberi. La rottura di questo equilibrio provoca l’insorgenza di lesioni cellulari che, se gravi e protratte, conducono a un’accelerazione del processo dell’invecchiamento e all’insorgenza di numerosissime malattie, oltretutto molto comuni, quali l’ipertensione arteriosa, l’aterosclerosi, l’infarto, l’ictus, il morbo di Parkinson, la demenza nell’Alzheimer, la colite ulcerosa, la pancreatite, l’obesità, il diabete, la bronchite cronica, l’artrite reumatoide, alcuni tipi di tumori ecc. Vi ho spaventato abbastanza? Confesso che ho atterrito persino me stesso. Tuttavia è importante non sottovalutare questi temi, che sovente non vengono presi in considerazione nell’area medica, se non in casi particolari. In tutto il mio percorso di laurea, specializzazione e successivi non mi è stato mai insegnato l’uso dell’integrazione. Inoltre, nonostante una mia sana alimentazione associata a una vita sportiva, mi sono ritrovato ugualmente ad avere dei valori ematici un po’ sballati. Certo, è la mia specializzazione, ma sono altresì convinto che chiunque operi in ambito sanitario debba essere quanto meno informato sull’esistenza di determinati argomenti, e che poi debba affidarsi a persone competenti e qualificate che sappiano consigliare oculatamente. Quindi, cosa fare? I miei consigli sono molto pratici. Come sempre suggerisco di affidarsi a uno specialista (mai il fai-da-te), con competenze comprovate e che possa prescrivere i seguenti esami: Dosaggio omocisteina. Dosaggio vitamina D. Valutazione degli stress ossidativi: (spesso si esegue uno di questi tre test). Metaboliti reattivi dell’ossigeno. BAP test (potenziale biologico antiossidante). D-ROMs test (valutazione stress ossidativo). Poi ovviamente, in seguito a un’anamnesi e ad altri dati, si mettono insieme le diverse informazioni per ottimizzare il “piatto”. Al termine di queste considerazioni, una riflessione conclusiva, con una domanda: dobbiamo tutti integrare sempre e per forza? Assolutamente no! Con i miei suggerimenti nutrizionali desidero soltanto infondervi qualche dubbio costruttivo. In fin dei conti lo sport insegna che trascurando di badare ad alcuni dettagli cadiamo e facciamo poi fatica a rialzarci. Ho capito In questi anni ho viaggiato e vissuto tante esperienze significative (inclusi voli aerei persi e valigie smarrite). Ho vissuto fra le più disparate e paradossali esperienze, ho avuto modo di ritrovarmi, di ristabilire un contatto con me stesso, con i miei valori e con il significato che voglio darmi e dare alla mia vita. Ho capito tante cose (un processo tuttora in corso, sia chiaro), ma soprattutto ho fatto mia la certezza che ognuno dovrebbe ritagliarsi preziosi momenti di isolamento per comprendere meglio se stesso e gli altri. Allora emergono nuove consapevolezze. Contrariamente alle mie aspirazioni di un tempo, sono ben lungi dal somigliare a un supereroe, al contrario sono un essere fragile. Ciò detto, ho capito che posso lavorarci, posso diventare più forte, rimanendo comunque sensibile alla vita. Ho la possibilità di forgiare un’armatura interiore, sanguinare meno e diventare un pochino più resistente alle intemperie. Se a parole è semplice, all’atto pratico sono tante le cose da fare. Più facile sicuramente indugiare e piangerci addosso trovando nuove scuse. Ciò che ho capito realmente è che abbiamo tutti la capacità di ricostruirci e reinventarci, adattandoci senza perdere la nostra umanità. È solo questione di testa. Dentro di noi abita una straordinaria e segreta forza rigenerante in grado di aiutarci a guarire da tutte le sofferenze. Essa sfugge ai più, ma quando è necessaria sorge a soccorrerci. Alla luce del mio vissuto, credo di averla avvertita. La sua presenza lancia un appello alle nostre risorse migliori: coraggio, costanza, determinazione e promette fatica, a volte sofferenza. Ma alla fine ci porterà oltre. Ed ecco un’altra cosa che ho capito. Mai dare niente per scontato, a partire da noi stessi. I traguardi vanno riconquistati ogni giorno. Perderli è questione di un attimo, tenerceli stretti è un lavoro quotidiano. Gli imprevisti arrivano, non importa quanto siamo preparati ad arginarli. Allora possono sconfiggerci oppure diventare occasioni di trasformazione e rilancio. Dipende da noi. A volte bisogna lottare, altre volte farsi da parte. C’è un tempo per trattenere e un tempo per lasciar andare, un tempo per conservare e un tempo per innovare. Le cose che succedono “per caso” non succedono “a caso”. Se riusciamo a conferire loro un significato, le coincidenze diventano occasioni al servizio del nostro destino, regali da interpretare. Forse non nell’immediato, perché magari siamo accecati dalla rabbia o dal dolore. Ci vuole tempo per convertire il dolore, spesso tanto, e il percorso si compie a piedi, nessuna scorciatoia o corse in taxi. Ed è per questo motivo che è meglio arrabbiarsi solo per le cose serie; le risorse personali vanno dosate, mai sprecate dietro a futilità. Il tempo è il bene più prezioso e non si può comprare. Ma si può organizzare. Ogni giorno ci regala 86.400 secondi, e sono gratis! Ogni giorno è quello giusto per migliorarsi. La dieta si comincia sempre oggi, non lunedì. Le scuse che sappiamo raccontarci sono alibi, bugie. La domanda: “Cosa vuoi fare da grande?” dovrebbe essere sostituita con un’altra, più corretta: “Chi vuoi essere da grande?” E finalmente l’avevo capito. I Fantastici 6: questione di testa “La mente mente” si suol dire. Ed è vero. I nostri pensieri e le nostre emozioni sono perfettamente in grado di fuorviarci. Sappiamo insomma mentire a noi stessi. Eppure, imparando a gestire meglio la mente possiamo utilizzarla per quello che è: lo strumento più efficace a nostra disposizione, e a gratis! In questi anni ho visto crollare atleti eccezionali a causa delle sole debolezze mentali, così come ho visto risorgere dalle macerie grandi persone che con il duro lavoro e una mente “forte” sono riuscite a vincere le sfide più gravose, nello sport come nella vita. Una celebre massima recita: “La vita è composta per il 20 per cento da quello che accade e per l’80 per cento da come reagisci.” Questo modo di dire porta alla nostra attenzione la centralità del mindset (l’atteggiamento mentale) nelle nostre esistenze. Se c’è un superpotere di cui tutti disponiamo (ma in pochi sfruttiamo completamente), è senza ombra di dubbio il decidere con quali lenti vogliamo guardare il mondo. Durante la mia vita di specializzando in scienze identificative forensi, immerso nei miei studi, nelle mie ricerche e in quell’incessante bisogno di dare un senso a quel numero incredibile di “cadaveri senza volto”, trovai esemplare la lettura della storia di Viktor Frankl, psichiatra austriaco che sopravvisse a quattro lunghi anni nei campi di concentramento, e durante l’esperienza della deportazione ebbe un’intuizione rivoluzionaria. Se da una parte osservava come, nei lager, i prigionieri venivano del tutto spogliati della loro identità, dall’altra aveva capito che niente e nessuno avrebbe mai potuto privare l’essere umano della possibilità di dare un senso a quanto gli accade. Nei suoi libri, Frankl insegna: “Tutto può essere tolto a un uomo a eccezione di una cosa: l’ultima delle libertà umane – poter scegliere il proprio atteggiamento in ogni determinata situazione, anche se solo per pochi secondi.”[2] Grazie anche al suo atteggiamento mentale, Viktor Frankl è sopravvissuto alla più dura delle prove che un essere umano possa affrontare. Negli anni in cui ero medico specializzando, durante una mia partecipazione a una conferenza medica a Poznań, in Polonia, chiesi espressamente di andare a visitare i campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau. Fu un’esperienza molto forte. Mi prese un dolore al petto e allo stomaco che mi fece stare male tutta la notte, e anche più. Ma ancora una volta capii, oltre al mio lavoro, come davvero per noi umani, il potere è nella mente e spesso, purtroppo, lo utilizziamo male, anzi malissimo. Cambiare idee per cambiare vita La vita è spesso ingiusta e dolorosa. Tuttavia, le lenti attraverso le quali decidiamo di guardarla forniscono alla medesima realtà significati che possono essere diametralmente opposti. Se siamo convinti che tutto andrà male, che non c’è speranza, che non siamo capaci o che ogni sforzo è inutile, allora metteremo in campo azioni coerenti con queste idee, e realizzeremo la profezia da noi stessi pronunciata: le cose andranno male. Viceversa, quando cambiamo la nostra visione della realtà, si modifica l’effetto che questa ha su di noi: Se ciò che ci è accaduto non lo leggiamo più come una sfortuna ma come un’opportunità, ecco che scopriamo il coraggio invece della paura. Se il nostro interlocutore non va più combattuto ma conosciuto, la curiosità prende il posto del pregiudizio. Se pensiamo che l’impegno venga sempre ripagato, la tenacia sostituisce la rinuncia. Idee differenti producono comportamenti diversi. E questi costruiscono realtà agli antipodi le une dalle altre. Ecco come mai le idee che coltiviamo sulla realtà possono limitare il nostro potenziale oppure sbloccarlo e farlo fiorire: un motivo in più per lavorare sul nostro mindset, in modo che ci possa dare la corretta predisposizione mentale davanti alle sfide da affrontare. Innanzitutto cerchiamo di definire il mindset, cioè il nostro atteggiamento mentale verso noi stessi e verso la vita: si tratta dell’insieme di convinzioni, percezioni e interpretazioni che una persona ha di sé e del mondo. Sono le nostre abitudini a definire il modo in cui affrontiamo la vita e le sfide che la vita ci riserva. Spesso sento questa frase che è davvero priva di senso: “Ma io sono fatto/a così, questo è il mio carattere”: che poi è il modo migliore per farmi innervosire, perché non è il nostro carattere che determina le nostre abitudini, ma sono le nostre abitudini che forgiano il nostro carattere, ed è qui che facciamo la differenza. Uno studio di Carol Dweck, psicologa di Stanford, ha identificato due tipologie di persone, contraddistinte da altrettanti tipi di mentalità: la prima con tendenza verso la staticità e l’altra verso il dinamismo, cioè la crescita. Mentalità statica: si tratta di persone che ragionano sempre per bianco e nero, giusto o sbagliato, molto giudicanti in modo definitivo, anche nei confronti di se stessi, spesso esuberanti in positivo, a volte in modo negativo, e convinte che sia impossibile passare da una situazione all’altra. Domanda ricorrente: “Perché è successo a me?” Questo mindset porta al desiderio di apparire capaci, ma non a esserlo davvero. Di seguito lo schema di azione che dalla situazione conduce al comportamento. Di conseguenza viene raggiunto il cosiddetto plateau di prestazione: il soggetto con questo mindset non esprime il suo massimo potenziale. Mentalità di crescita, plastica, dinamica, capace di adattarsi, per cui qualsiasi cosa è possibile, sa cambiare posizione, opinione, giudizio. È tipico di una persona che ritiene sempre possibile arricchire la propria esistenza, per esempio con un percorso di crescita personale. Questo tipo di individuo ha un maggior livello di resilienza e trova nelle difficoltà, nelle problematiche, negli ostacoli, una lezione da apprendere, dalle esperienze cerca di trarre delle lezioni di vita. In questo mindset, si è portati al desiderio di apprendere. Il soggetto dotato di questo mindset continua a evolversi ed esprime a pieno il suo potenziale. Ecco perché adoro la mentalità degli sportivi e di tutte quelle persone che sanno evolvere e amano sfidarsi. Motivo per cui cercano risposte diverse alle solite domande. Fondamentalmente queste persone hanno capito che cambiare idea su qualcosa, può trasformarle. Il che è un concetto assodato nella neuroscienza, soprattutto per la gestione dello stress e delle nostre emozioni. Tutto parte da come ci poniamo verso noi stessi in primis. Poi, la differenza si evidenzia nella nostra quotidianità, perché a mio avviso sono due le domande cui dobbiamo essere in grado di rispondere. Vi invito a: 1. Pensare a una situazione difficile, stressante e decisamente impegnativa. Domanda 1: sono all’altezza della situazione? sì / no Se la risposta è no, chiedersi: perché no? Domanda 2: cosa sono davvero in grado di fare sotto pressione? Come reagisco? So controllarmi? Come apneista ho cercato negli abissi le risposte alle domande della vita; come medico forense ho indagato segreti abissali nella morte. E ho capito che solo gestire la propria mente ci permette di esserci e creare la nostra presenza. Il mio mantra è questo: “Costruisci il tuo vero potere nella mente poiché la forza della quiete vince la debolezza dell’agitazione.” Sono sicuro che vi siate riconosciuti in uno dei due mindset sopra riportati, ma vi invito comunque, qualora ci fossero ancora dubbi, ad adottare lo strumento che Alia Crum, psicologa, ha creato e battezzato Stress Mindset Mea- sure, e che è in grado di mettere a fuoco il nostro atteggiamento mentale di fronte allo stress. Pensiamo a quanto siamo d’accordo con le seguenti affermazioni da 1 a 10 (dove 1 = fortemente in disaccordo e 10 = molto d’accordo) e riporta in tabella le tue valutazioni: Sommando i punteggi delle affermazioni 1, 3, 5 e 7 otterrete la “somma 1”. Scrivetela di seguito: Sommando i punteggi delle affermazioni 2, 4, 6 e 8 otterrete la “somma 2”. Scrivetela di seguito: Come avrete intuito: La somma 1 (che va da 0 a 40) è indice di una visione dello stress come nocivo. La somma 2 (che va da 0 a 40) è indice di una visione dello stress come salutare. Le affermazioni 1, 3, 5 e 7 delineano un approccio mentale che induce a considerare gli aspetti negativi dell’essere sotto pressione e di sentirsi per questo stressati. Le idee 2, 4, 6 e 8, al contrario, delineano un approccio mentale che consente di raccogliere gli aspetti positivi dello stress. Le seguenti quattro idee ci mettono nella condizione di coltivare un atteggiamento evolutivo: Sperimentare stress migliora la mia salute e la mia vitalità. Sperimentare stress migliora le mie prestazioni e la mia produttività. Sperimentare stress facilita il mio apprendimento e il mio percorso di crescita. Gli effetti dello stress sono positivi e dovrebbero essere sfruttati. Di seguito, alcune domande per mettere a fuoco in maniera più precisa il vostro attuale approccio mentale nei confronti delle situazioni stressanti e che ripeto abitualmente ai miei atleti, oltre che a me stesso: 1. Cosa dici ad alta voce o cosa pensi quando sei particolarmente stressato? Sono pensieri o parole che fanno emergere un’idea di stress come negativo o come positivo? 2. Come ti fanno sentire i tuoi pensieri sullo stress nei confronti di te stesso e della tua vita? Ti fanno abbattere o ti danno energia, grinta, carica, determinazione? 3. Cosa fai quando ti senti sotto stress? Ti distrai o cerchi di concentrarti per trovare una soluzione? 4. Che cosa dici o che cosa fai quando le persone intorno a te sono stressate? Come ti poni verso di loro? 2 V.E. Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, Milano 1967. Motivazione o ansia Da dove nasce la motivazione? Cosa permette a certe persone di trovare risorse per andare avanti nei momenti più difficili quando altre invece non riescono a dare forma alle proprie decisioni? Che cosa trasforma il desiderio in azione e il sacrificio, o meglio le rinunce, in risultati? Il termine “motivazione” deriva dal latino motus, ossia movimento, e indica il muoversi di un soggetto verso qualcosa di desiderato: avere un motivo per mettersi in azione. Uno scopo, un obiettivo, a seconda dell’importanza emotiva attribuitagli, permette di affrontare con forza e grinta la fatica o le rinunce. Spesso, quindi, l’assenza di motivazione è solo il riflesso di una mancanza di obiettivi chiari e condivisi (già spiegato precedentemente, ricordiamo vero?). In poche parole, se continuiamo a perdere la motivazione è perché i nostri obiettivi non sono chiari. Ci nascondiamo dietro gli alibi della pigrizia o del carattere. Ma c’è anche un altro punto da tenere in considerazione: la chiarezza dell’obiettivo non sta tanto nell’avere in mente cosa vogliamo ottenere, ma nel sapere cosa serve per riuscirci. È facile da comprendere: un obiettivo, per quanto piccolo sia, non si raggiunge con una singola azione. L’esempio più semplice è il percorso di laurea, familiare a tanti. L’obiettivo è senz’altro discutere la tesi e ritirare il diploma, ma per arrivarci bisogna superare gli esami. Gli esami allora diventano il vero obiettivo, ma superarli implica possedere un metodo di studio, una cognizione specifica fatta di conoscenze che aumentano un passo alla volta. Perché motivazione e ansia sono collegate? La prima viene spesso confusa con la mera forza di volontà o con una sorta di carica energetica, cioè la disponibilità di forza mentale e fisica necessaria per svolgere un compito. Come detto sopra, la motivazione è una parola che sottintende un’azione, avere un vero motivo che ci spinge ad agire. Ebbene, se ci si mette in moto rapidamente, si riduce il tempo destinato al pensiero assillante e tormentoso. Questo non significa che la motivazione è nemica del pensiero, della pianificazione… ma possiamo affermare che un’eccessiva pianificazione tende a minare la spinta emotiva insita nella motivazione. Anzi, per esperienza vi posso dire che coloro che tendono a procrastinare all’infinito sono in genere dei grandi pianificatori, nel senso che passano la maggior parte del tempo a pianificare, a immaginare… senza mai agire. La procrastinazione, che possiamo considerare il rovescio della medaglia della motivazione, è determinata da uno stato d’ansia che può trovare sfogo solo rimandando ciò che non ci piace. Per questo, mentre si tende a pensare che le persone dotate di motivazione possiedano un talento innato per portare a termine ciò che si prefiggono, la realtà è che si tratta di individui che gestiscono bene l’ansia. Il sollievo che si prova nell’atto di rimandare, infatti, ha lo stesso effetto di quello sperimentato portando a termine il compito prefissato. Con il difetto che si tratta di una mera illusione nella quale il “non fare” ha lo stesso peso del “fare”: agire e non agire si equivalgono, mentre sappiamo che, prima o poi, la realtà viene a saldare il conto di tanti ritardi e ripensamenti, l’inazione si rivela molto più onerosa del fare (possibilmente subito e bene). Chi è motivato quindi gestisce meglio l’ansia. In questi individui essa suscita una spinta ad agire per onorare a tutti i costi gli impegni assunti. Chi procrastina, al contrario, proietta sul presente le conseguenze sgradevoli e future dell’industriarsi, che spesso sono sopravvalutate, calcolate male, esagerate in ogni aspetto. D’altronde, se l’ansia è uno stato d’animo naturale, i problemi cominciano quando si cronicizza. Analogo discorso per lo stress, una risposta naturale che ci predispone alla sopravvivenza in casi più o meno disperati, ma in condizioni ordinarie può diventare un nemico. Un po’ di stress ci aiuta a impegnarci, dal momento che il nostro organismo è abile nel destinare le energie verso specifici obiettivi, come uno sforzo fisico e intellettuale. Diverso è se arriva a paralizzarci schiacciando la motivazione sotto il penso dell’ansia. Ma come succede? I tre motivi principali Il principale, a mio avviso, è di tipo cognitivo: quanto maggiore è lo scarto fra la nostra competenza e quella occorrente a portare a compimento un obiettivo, tanto maggiore sarà l’ansia. Conosco persone che rinunciano a viaggiare perché temono di perdersi in stazione o in aeroporto. Un’ansia che tende a diminuire e scomparire con l’esperienza. Che cosa ci insegna questo? Che spesso dietro la motivazione c’è un problema di esperienza. Possiamo sentirci poco motivati solo perché non sappiamo come agire. Vorremmo fare, ma non passiamo all’azione perché non sappiamo come. Il problema appare cento, mille volte più grande di quanto sia. Se l’ansia da inesperienza è comune, la risposta migliore è lanciarsi e agire aprendosi all’emozione del momento e accettando il rischio di fare brutta figura. Un altro motivo per cui si perde la motivazione è che non sappiamo scegliere. In un mondo che offre tante possibilità, e intendo possibilità di svago, intrattenimento e distrazione, il vero problema non è dire sì, ma dire no. Le persone più motivate riducono le opzioni di scelta, in modo da non dover affrontare ripetutamente l’ansia di decidere. Se le cose da fare o le opzioni da valutare sono troppe, finiremo per prediligere meccanicamente ciò che riduce l’ansia corrente. Ma siccome la motivazione implica sempre qualcosa che è avanti nel tempo, ridurre l’ansia attuale equivale a una falsa partenza, a disattivarci proprio nel momento in cui invece dobbiamo metterci in moto. Il cervello, questo nostro straordinario comandante, decide sempre per il benessere presente, perché è modellato per assicurarci la sopravvivenza nel presente. Quando fumi una sigaretta ti senti bene? Per lui va bene così! Ugualmente, se lo alleni a considerare un sollievo il costante rimandare, non fare, stare fermo e dire sì a tutto ciò che ti distrae e ti piace, alla fine riterrà che tutto questo sia un motivo più che sufficiente di benessere. È chiaro, tuttavia, che si tratta di un circolo vizioso e controproducente. Per far fiorire la motivazione valuta bene le tue opzioni senza farti ingannare da ciò che ti regala un sollievo immediato. Infine, terzo motivo: conoscersi meglio. Siamo tutti poco inclini ad ammettere i nostri difetti, e quando lo facciamo, ci concediamo una benevolenza eccessiva. Ma i difetti sono lì, esistono a prescindere da quanto siamo condiscendenti con noi stessi. Solo guardandoli in faccia possiamo decidere se migliorare o decidere di conviverci. In un caso opereremo scelte migliori per noi stessi, nell’altro almeno eviteremo di volerci male. È tipico il caso dell’attività fisica. Tutti sanno che lo sport è salutare, ma tante persone decidono di ignorarlo. “Ma chi me lo fa fare di mettermi a correre? Chi ha voglia di andare in palestra?” Nessuno ti costringe a correre o ad andare in palestra, non sei costretto a fare ciò che non ti piace, ma potresti imparare a identificare bene gli obiettivi per non costringerti a necessitare di un surplus di motivazione, che genera ansia. Pronti, a posto, via! Cosa succede al nostro corpo prima dello “Start”? Dieci secondi alla partenza. La gola è secca, le mani sudano, i muscoli sono tesi o tremolanti, il cuore accelera. L’ansia da prestazione inizia a farsi sentire. Respira. Inizia un dialogo interno di svalutazione, la tua motivazione perde vigore e ti domandi come mai ti sei messo in quella situazione. Respira. L’ansia da prestazione sottrae attenzione ai fattori esterni, il tuo campo reattivo si restringe. Se guardi gli altri, sembrano tutti più bravi e più in forma. Respira. Non vuoi deludere la squadra e chi fa il tifo per te. “Che Ansia!” Ma alcune cose possono cambiare. Anche se non ci è concesso avere il controllo sulla reazione emotiva innescata da uno stimolo esterno (in questo caso la gara) possiamo tuttavia imparare a gestirla, a scegliere i pensieri che la accompagnano. È possibile trasformare il dialogo interno svalutante in messaggi positivi, così come iniziare a riconoscere i fattori eccessivi di stress ed educarli. E riportarci così in pista. Visualizzare per agire Il segreto dei campioni, ma anche più in generale degli sportivi, è sicuramente l’allenamento costante, ma a giocare un ruolo di vitale importanza è il fattore mentale. Alcune tecniche scientificamente testate e facilmente adottabili, possono migliorare le prestazioni. Una di queste è la visualizzazione. Il Mental Training, una serie di metodi e strumenti per l’allenamento mentale, è una pratica molto diffusa tra gli sportivi professionisti. Per i piloti di Formula Uno, MotoGP, o di volo acrobatico, per esempio, è fondamentale disporre di una mente allenata a gestire lo stress per non incorrere in contrattempi che pregiudicherebbero l’esito della prova. Memorizzare il percorso della pista oppure il gesto da eseguire in uno specifico istante concorre alla riuscita della prestazione. Sono tantissimi gli atleti in diversi sport che per concentrarsi scelgono di visualizzare i movimenti da compiere o intere fasi dell’allenamento in preparazione delle gare. Lo fanno prima di andare a letto, appena svegli al mattino o poco prima della performance: una forma di meditazione che può essere svolta quando e dove si vuole. Visualizzare significa crearsi un film, un “déjà-vu” di ciò che andremo a fare, vivendolo a più riprese nella nostra mente con tutti i dettagli e le emozioni del caso. Adottare tecniche di visualizzazione nella vita di tutti i giorni, facendone una routine, può essere un valido supporto per: Migliorare le performance. Favorire il processo di apprendimento. Controllare l’ansia da prestazione. Creare una sensazione generale di benessere psicofisico. Incrementare la concentrazione. Uno studio della Cleveland Clinic Foundation, in Ohio, ha rivelato che visualizzare un esercizio specifico nella propria mente prima di realizzarlo può aumentare la forza dei muscoli coinvolti fino al 53 per cento. Un altro studio dell’Università di Chicago ha scoperto che la visualizzazione può migliorare le prestazioni sportive quasi quanto una sessione di allenamento in tempo reale. Praticamente farlo nella mente è quasi come averlo già fatto. Ed è stato proprio così nella mia vita di apneista quando immaginavo di lavorare sulle mie paure di scendere negli abissi. Posso dire lo stesso per quanto riguarda il dover lavorare su un cadavere. Il viaggio nelle paure Chi ha paura alzi la mano. La mia è già sollevata. Ricordo molto bene che dopo l’incidente mortale del mio amico Filippo mi attanagliava un’immensa paura di fare apnea, di andare in acqua e, ancora peggio, di uscire di casa. Questa è stata forse una delle mie più grandi paure, e in parte voglio essere onesto, ci sto ancora lavorando. Affrontare la scomparsa del mio amico mise in moto un processo inconscio che minò alla base la mia convinzione di essere quasi un supereroe. Non avevo superpoteri, non potevo oppormi a una realtà schiacciante di angoscia che non voleva abbandonarmi nemmeno per un istante. La perdita era così grande, il vuoto immenso. E io così piccolo. Quella paura mi capita ancora di “sentirla”. Si accende come un campanello di allarme: “Pericolo – pericolo – pericolo!” Poco alla volta si tinge dei colori oscuri della fobia, ma prima che questa esploda fortunatamente riesco a frenare, a gestire le emozioni. Ho scritto “fortunatamente”, ma in realtà non è un caso: personalmente costruisco la mia forza mentale ogni giorno. Se prima lo facevo come atleta, oggi sempre di più come persona. Quando ho iniziato a lavorare con grandi atleti dello sport italiano, mi sono reso conto che anche loro avevano paura, anche a loro era capitato di stare male, e tanto! Anche loro avevano fobie magari più marcate delle mie e chiedevano a me come ero riuscito a uscirne. Siamo tutti esseri umani. L’apnea è una disciplina molto particolare e, per me che la amo, la cosa più naturale del mio percorso di vita, ma posso capire che faccia paura. Immergersi nel blu-nero del mare senza vedere il fondo e il punto di arrivo, con tutti i possibili imprevisti. E se passa uno squalo? Tante domande, tanti dubbi, tante perplessità su cui devi costruire la tua vera forza, abbattendo le tue convinzioni o quelle che gli altri ti gettano contro con negatività: “Non ce la farai mai.” Per la verità, le paure degli altri possono indebolire la tua fiducia in te stesso più delle tue. La paura è una delle nostre sette emozioni primarie, assieme a gioia, rabbia, disgusto, tristezza, sorpresa e disprezzo; esistono poi le emozioni secondarie, che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale. Tutti nel corso della vita abbiamo paura. È la più umana delle emozioni e si manifesta con stati di diversa intensità emotiva che vanno dal timore, l’apprensione, la preoccupazione, l’inquietudine o l’esitazione fino a gradi più alti come l’ansia, il terrore, la fobia o il panico. Nella paura può esprimersi sia un’emozione presente e attuale che una previsione emozionale futura, soprattutto quando prevediamo un evento che ci rende nervosi e di cui non abbiamo sicurezza o controllo. Può essere di natura innata (le paure presenti dalla nascita e codificate per natura dal cervello umano, come la paura dell’ignoto o di situazioni di pericolo) oppure appresa, cioè tutte quelle che derivano da esperienze vissute negative che ci condizionano da quel momento in poi. Il nostro organismo può sviluppare due tipi di risposte alla paura: da una parte aumenta la possibilità di sopravvivenza (paura cognitiva), dall’altra danneggia la nostra prestazione (paura emotiva). La paura cognitiva ci mette in allerta e ci aiuta a difenderci dai possibili pericoli, ci fa tenere gli occhi aperti e ci serve per valutare al meglio le circostanze. Non percepirla affatto, rischia di farci finire male. Se non provassimo paura, andremmo incontro al pericolo in modo stupido ed evitabile. Ci sono tanti tipi di paura, ma questo non vuole essere un trattato sulla materia, bensì un piccolo vademecum di quelle che più facilmente ho riscontrato confrontandomi con me stesso e tante altre persone, atleti inclusi. La paura di cambiare La paura emotiva, che dipende da noi ed è condizionata dai nostri pensieri e dalle nostre emozioni, ci porta a vedere pericoli anche dove in realtà non ci sono, offusca il nostro giudizio e la capacità di giudicare correttamente e su basi concrete. Per esempio, la paura dei cani può portarci a temere un cucciolo innocuo. Il cambiamento è fondamentale nella vita di ognuno di noi: interessa infatti tutti gli individui, indistintamente. Cambiare casa, cambiare lavoro, lasciare il proprio fidanzato, andare a vivere in un’altra città, decidere di diventare genitore. I cambiamenti sono momenti cruciali nella vita di ognuno, nessuno può sottrarvisi. Pensate ai cambiamenti più importanti che avete dovuto affrontare nella vostra vita e scriveteli: Il tipo di cambiamento che avete dovuto affrontare, siete stati voi a cercarlo o vi è capitato improvvisamente e non dipendeva da voi? Tutti sappiamo che la vita avanza solo grazie al cambiamento. Se non ci fosse, come potremmo essere ciò che siamo? Ma non possiamo negare che nella maggior parte dei casi esso ci spaventa. Ci vuole coraggio a rinunciare a ciò che conosciamo per abbracciare l’ignoto. Dei cambiamenti che avete scritto sopra, quanti vi hanno ispirato timore o paura? Il cambiamento determina diffidenza perché chiama in causa l’autostima. Più essa è alta, più ci sentiamo abili, forti e sicuri per affrontare gli eventi con positività e ottimismo. Al contrario, se la nostra autostima è bassa, vogliamo restare nella nostra comfort zone, al riparo da possibili minacce e cadute. La paura del cambiamento è strettamente legata alla paura del fallimento. Quante volte non avete afferrato una possibilità per paura di fallire? Quante volte siete rimasti fermi perché “non sapevate cosa poteva succedere”? Questo atteggiamento è limitante, porta a non voler rinnovarsi e ad accontentarsi senza darsi la possibilità di mettersi in gioco seriamente. Quando vi trovate di fronte a un cambiamento, provate a pensare: “In che modo può migliorare la mia vita?” Concentratevi cioè solo sui possibili aspetti positivi e provate a lasciare da parte gli altri. Ripensando ai cambiamenti che avete annotato in precedenza, scrivete tutti gli aspetti positivi che hanno generato nel tempo: In un mondo in continuo mutamento, l’unica cosa che non cambia è l’umana resistenza al cambiamento. L’ansia che lo accompagna è del tutto naturale fino a che non diventa il tipo di paura paralizzante che ci fa perdere di vista il nostro potenziale. In questo caso la mente tende a resistere alle insicurezze e all’incerto, prefigurando un esito negativo. In un certo senso ci tradisce. D’altro canto è anche vero che la mente è flessibile e capace di adattarsi. Il segreto è capire come potenziare questa sua dote e richiamarla a noi ogni volta che serve. Superare con successo la paura del cambiamento è il frutto di una combinazione di comportamento, mentalità e corretta respirazione, che aiuta a gestire le emozioni e mantenere il controllo fisico e mentale. La chiave è rimanere presenti mentalmente e affrontare la novità senza pregiudizi, previsioni e aspettative. Più ti nascondi e proteggi, più il nuovo ti spaventa e vedi ovunque pericoli inesistenti. Prova a osservare senza giudizio e lavora su nuovi comportamenti che agevolino l’abitudine alle nuove circostanze. Per quanto mi riguarda, vivo, interpreto e costruisco il cambiamento secondo una serie di principi, ricordando che “No change, No life”. C come Consapevolezza: prendiamo coscienza che l’essere umano è in continua evoluzione da quando è nato. Il cambiamento fa parte della nostra esistenza ed è quindi naturale. Quanti cambiamenti sono avvenuti nella vostra vita fino a oggi? E quanti di essi hanno portato a un miglioramento? A come Analisi: quanto mi costerà non cambiare? Quanto mi è già costato? Quali saranno i benefici che otterrò cambiando? Questo tipo di analisi aiuta a prendere una decisione. M come Mindset: il cambiamento è nella mente. La cosa migliore è passare da un mindset statico, propenso a stazionare nella zona di comfort, a uno evolutivo, allettato dalla sfida e dalla crescita. B come Bersaglio: fissarsi un obiettivo chiaro e preciso. All’inizio è possibile che si desideri cambiare per sfuggire a una situazione spiacevole, ma poi è necessario avere un luogo verso il quale dirigersi o si finisce per girare a vuoto. I come Impegno: tanti dichiarano di voler cambiare alcuni aspetti della loro vita, salvo poi non fare niente per riuscirci. Cambiare richiede impegno e azioni. Sperare che qualcuno agisca al posto tuo, non porta da nessuna parte. A come Accettazione: soprattutto all’inizio, bisogna accettare che gli ostacoli sono parte integrante del percorso di cambiamento. Anziché demoralizzarsi e tornare indietro, assumiamo che sono l’elemento più utile per andare avanti. R come Responsabilità: smettiamo di dipendere da fattori esterni a noi stessi. Assumiamoci la responsabilità e allo stesso tempo il potere che ne deriva: il futuro che giace nelle nostre mani. E come Entusiasmo: anziché viverlo come un pericolo di sacrificio, divertiamoci a cambiare, a imparare con curiosità qualcosa di nuovo e a metterci in gioco. Da piccoli, queste sfide non ci facevano paura. Torniamo un po’ bambini. La paura del giudizio Anche in questo caso, parto da un concetto che forse può sembrare ovvio: la paura del giudizio è radicata nella natura umana. Tutti vogliamo fare bella figura, e speriamo di piacere ed essere accettati da un lato, mentre dall’altro paventiamo la disapprovazione. L’ansia leggera che ci prende quando attendiamo un giudizio o quando ci troviamo di fronte a sconosciuti è comune a tutti, e non c’è nulla di sbagliato. Anzi, quell’ansia ci motiva a fornire prestazioni migliori, a dare il massimo. Il problema, anche in questo caso, sorge quando quella sensazione si intensifica tanto da bloccarci. Si innesca cioè il timore di non venire accettati: per il nostro aspetto fisico, per il nostro modo di parlare, per la nostra educazione, per il lavoro che svolgiamo, per la condizione economica, per un risultato non ottenuto… a ognuno il suo, ma alla base c’è il timore dell’umiliazione, dell’esclusione, dell’emarginazione. Quando la paura diventa una fobia che ci blocca, iniziano i problemi, mentre essa ci induce a evitare situazioni di potenziale esposizione al giudizio. In casi meno gravi, ma comunque non funzionali per il proprio benessere, ci teniamo in disparte, parlando meno possibile e dando ragione agli altri solo per evitare di esprimerci. Cerchiamo di passare inosservati. Ci sono poi i casi più gravi, in cui si arriva a evitare qualunque tipo di coinvolgimento personale, rapporto, relazione, conoscenza, uscita e opportunità. La paura del giudizio può essere strettamente connessa a quella della solitudine. Una fobia che può portare a fare di tutto per non trovarsi in pubblico, che forza a rinunciare a impieghi di lavoro, a saltare esami universitari… a causa sua, non ci si sente mai “all’altezza della situazione”. Alla chiusura in se stessi molto spesso segue una sorta di paranoia, la sensazione di avere addosso gli occhi degli altri, di venire criticati a ogni piè sospinto, di essere sotto esame. L’autopercezione è alterata, basata sulla paura più che sui fatti. Il viso va a fuoco e tutti se ne accorgono, ma in realtà nessuno sta badando a noi. Pensieri e convinzioni negative inducono uno stato d’ansia che, in un gioco di specchi (infranti), offusca le nostre percezioni. Vorrei che scriveste la principale caratteristica di voi stessi per cui temete di più di essere giudicati dagli altri: La paura del giudizio, quando diventa incontrollabile, si trasforma in fobia sociale, che può essere di due tipi: da “prestazione” o da “interazione”. Quella prestazionale è la fobia di fronte alle performance che siamo chiamati a compiere, nello specifico in pubblico: un colloquio, cantare o ballare a una festa, parlare di fronte a un uditorio. Colpisce spesso anche gli atleti prima di una gara importante o i cantanti e gli attori prima di un’esibizione. Quella da interazione è invece quella sensazione di blocco e chiusura quando si tratta di relazionarsi con gli altri, fare nuove conoscenze, esprimere il proprio punto di vista nelle conversazioni, frequentare persone che non conosciamo bene. Una non esclude l’altra: quando si provano entrambe queste paure, si parla di fobia del giudizio generalizzata, che fa sentire allo scoperto e indifesi in qualunque occasione. Attenzione, anche se possono essere confuse, timidezza e fobia sociale non sono la stessa cosa. La timidezza è un tratto di personalità. Il timido evita di mettersi al centro dell’attenzione perché non ama farlo, non perché ne è terrorizzato. Non è incapace di affrontare quel tipo di situazione, se necessario. Chi viceversa soffre di fobia sociale rifiuta ogni esposizione al potenziale giudizio altrui per via di una paura acuta, che provoca ansia, tremore, stress intollerabile. Non è una caratteristica della sua personalità e non l’accompagna dalla nascita, bensì si è sviluppata a seguito di un trauma o di una particolare vicissitudine. Questo argomento mi sta a cuore, dato che fino a poco tempo fa soffrivo davvero tanto il giudizio altrui, al punto di esserne succube. Perché mi succedeva, e perché succede agli altri? Come possiamo superare questa paura? L’educazione gioca un ruolo cruciale. Se siamo stati abituati, magari dai nostri genitori, a preoccuparci eccessivamente del parere altrui, da grandi difficilmente vivremo serenamente il giudizio, soprattutto nel corso di periodi difficili, che porteranno a galla la nostra vulnerabilità. Aver subito molte critiche ed essere cresciuti con l’idea che per piacere sia fondamentale omologarsi a determinati standard, è un viatico per questa forma di fobia. Mi è inevitabile ricordare che per anni sono stato considerato il “figlio degli slavi”. Inoltre più è bassa l’autostima, maggiore sarà il bisogno di ottenere un riscontro positivo, il solo modo per sentirsi una persona di valore per chi da solo non si considera tale. Forse è stato questo lo stimolo che mi ha spinto a gareggiare, a voler vincere a tutti i costi, ignaro che il valore e la sicurezza personale non dipendono che da se stessi. Nonostante la sensibilità sia una dote ammirevole è bene evidenziare che se non si accompagna a una mentalità forte può renderci facilmente condizionabili. Chi manca di sensibilità è chiuso alle opinioni altrui, chi lo è senza il contraltare di una buona autostima, rischia di essere anche troppo permeabile a quanto dicono gli altri. Le paure sono spesso infondate, specie quando proiettiamo sugli altri i prodotti della nostra mente. Siamo spesso i giudici più severi di noi stessi, i nostri accaniti critici interni in servizio ininterrotto 24/7. Quindi, il primo passo è smettere di proiettare negatività su noi stessi. Ancora una volta, la chiave per superare la paura è dentro di noi. Occorre come sempre imparare a conoscerci meglio, limiti e risorse, punti forti e debolezze. Vorrei che faceste un esercizio: dividete un foglio a metà. Da un lato scrivete i vostri tre punti di forza, pregi, valori di cui andate fieri. Dall’altro, i tre punti deboli, le cose che non vi piacciono di voi, le caratteristiche che vorreste cambiare. La consapevolezza è il primo passo. Una volta che avete chiari in mente i vostri punti forti e deboli, accettateli per poi lavorare sui punti di forza allo scopo di svilupparli ulteriormente e, perché no, crearne di nuovi. L’autostima ne beneficia sempre. Non c’è nulla di male ad avere dei punti deboli, non è un dramma e, soprattutto, si può sempre migliorare. I nostri limiti sono lì per essere accettati, e quindi superati, cosa che non si può fare se li nascondiamo o rifiutiamo. Ora, prendete i tre difetti, le tre cose che non vi piacciono di voi stessi scritti poco fa e ideate per ognuno, un modo per migliorarvi in merito, anche di poco. Chiedetevi: cosa posso fare per accettare questo difetto e fare in modo di viverlo con serenità? (Per esempio, se una persona teme il giudizio perché si sente sovrappeso, andare a camminare mezz’ora ogni giorno può portare una nuova sensazione di benessere che permetterà di sentirsi meglio e di non vedere più il problema come qualcosa di insuperabile). La consapevolezza permette di smettere di interpretare ruoli per piacere per forza agli altri, il che ci renderà più spontanei, e la spontaneità tira fuori il meglio di noi. Abbandonare un comportamento dettato dal solo desiderio di piacere agli altri può riservare belle sorprese. Le persone che ci amano davvero ci saranno sempre e comunque. Lasciamoci alle spalle il tipo di persone che ci limita con insistente negatività, se possiamo. E, quando non possiamo, diamo il giusto valore ai loro giudizi. Le uniche critiche che dovremmo prendere in esame sono quelle che vengono mosse da chi ci vuole bene. Queste sono di solito critiche costruttive, da cui non dobbiamo certo difenderci. Spesso chi ci conosce bene vede di noi ciò che ci sfugge. La paura della morte Non vi nascondo che quella della morte è stata, ed è in parte ancora, una paura che ha segnato il mio percorso di vita, nonostante la mia ricerca forense e il confronto quotidiano con i defunti. Siamo la sola specie consapevole della fine inevitabile. I bambini non hanno questa paura. Ciò che la scatena è la consapevolezza che cresceremo, diventeremo adulti e poi anziani finché, inevitabilmente, ci spegneremo. In alcuni casi questa consapevolezza può giungere quando siamo ancora piccoli, derivante dalla perdita improvvisa di una persona cara, ma normalmente la paura sopraggiunge nell’età di mezzo, quando la maggior parte degli obiettivi sono stati raggiunti, i nostri figli si allontanano da casa, andiamo in pensione e non abbiamo più una vita frenetica fatta di impegni e scadenze da rispettare. Nel contempo si manifestano i segni dell’invecchiamento e dei cambiamenti fisiologici che non possiamo nascondere a noi stessi. È allora che si viene assaliti dalla crisi di mezza età, e l’angoscia della morte irrompe con tutta la sua forza, per diventare una presenza fissa quando siamo più anziani e ci rendiamo conto che gli anni davanti a noi iniziano ad assottigliarsi. Come ogni altra paura quando questa non ci toglie il sonno o non limita la nostra vita, siamo nella sfera della normalità. A ben vedere la paura della morte può indurci ad agire con cautela, a prendere precauzioni appropriate per ridurre i rischi evitabili. Può soprattutto ricordarci di sfruttare al meglio il nostro tempo, non dando nulla per scontato. Nella mia vita da apneista non ho mai pensato alla morte, ma ho sempre cercato di agire in sicurezza, senza mai trascurare di conservare il mio margine di riserva. La vera paura della morte mi ha aggredito in seguito alla scomparsa del mio amico Filippo. Da allora quel pensiero fobico è diventato un compagno di vita. Il problema, anche in questo caso, sorge quando la paura della morte diventa ossessiva, limitante, il pensiero fisso delle nostre giornate, un terrore che impedisce qualsiasi felicità e realizzazione, quando cioè la paura della morte diventa così intensa da interferire con la nostra vita quotidiana tanto da ostacolare i comportamenti e le decisioni più semplici: uscire di casa, portare fuori il cane, fare un viaggio, vedere le persone che amiamo ecc. Il mio consiglio è di non bloccare questa paura, quando arriva non estromettiamola a viva forza, guardiamola in faccia. Questo la renderà meno oscura, ci darà modo di confrontarla. La vita diventa molto più preziosa quando ci rendiamo conto della sua transitorietà. Che cosa ci spaventa tanto della morte? L’ignoto, la perdita e il non avere alcun controllo. Ma se accettiamo tutto questo, poco alla volta, la paura sfuma. Pensare alla morte è necessario per essere più consapevoli e meno spaventati. Pensarci porta ad accettarla, prendendo atto che non abbiamo il totale controllo sulla nostra vita. Ma possiamo concentrare le nostre energie su ciò che è in nostro potere, questo sì. Provate ad annotare in quali momenti pensate alla morte. Invece di nascondere questi pensieri, cerchiamo di capire da dove arrivano e perché. Prendere nota delle situazioni in cui la paura arriva a colpirci può aiutare. Quando pensi alla fine, prova a chiederti: “Che cosa stavo facendo, cosa stava succedendo intorno a me, che situazione stavo vivendo, dentro e fuori?” Come ho ripetuto a più riprese, la paura è sì una forza potentissima che può influire su qualunque vostra azione, ma è solo qualcosa che creiamo noi stessi con la nostra mente. Dipende da previsioni e immaginazione. Più queste previsioni sono negative, più la paura sarà intensa. Se riusciamo a prendere consapevolezza di questa realtà e del fatto che generiamo da noi le nostre paure, possiamo iniziare a guardare oltre. La morte c’è, esiste ed è concreta, ma possiamo vederla come il punto di arrivo di un percorso che possiamo rendere meraviglioso. Iniziamo a pensare al tempo che abbiamo e a sfruttarlo al meglio. In questo modo, se viviamo a pieno ogni giorno, quando arriverà il nostro momento non avremo rimpianti. Concentratevi sulle cose che potete controllare e cambiare, e direzionate la paura di morire a vostro vantaggio con scelte migliori. Per esempio, se siete preoccupati di morire a causa di un attacco di cuore, focalizzatevi su ciò che potete fare: smettere di fumare, fare regolare esercizio fisico, mangiare sano, programmare visite di controllo costanti in modo da essere sempre monitorati. Passare il tempo a pensare alla morte non la allontanerà. Sfruttare il tempo per vivere meglio invece sì! Invece di vivere il pensiero della morte come una terribile e inevitabile tragedia, proviamo a prenderla come un utile campanello d’allarme che ci segnala che non stiamo vivendo in modo autentico. Le persone che hanno più paura di morire sono quelle che vivono meno pienamente la loro esistenza, reprimono e non esprimono parti di sé. Usiamo questo pensiero come occasione per una vita più significativa e piena, e come spinta ad attuare cambiamenti desiderati, ma sempre rimandati. In modo giocoso, per quanto il tema lo permetta, quando vi trovate di fronte a una scelta da fare che magari vi spaventa, provate a pensare: “Tanto devo morire.” Lasciatevi andare, buttatevi e godete del tempo su questa terra, ricordando che le esperienze di condivisione sono il migliore antidoto alla paura della morte. Empatia. Ecco lo strumento più potente che abbiamo per connetterci con gli altri, il collante della connessione umana. E poi naturalmente ci viene ancora una volta in soccorso il respiro, che può aiutarci a ridurre la tensione e a ritrovare il giusto equilibrio. Più si è equilibrati, più si ha potere sui problemi e sulla paura. Poiché il respiro incide sul nostro comportamento, esserne padroni significa dominare gli eventi che si stanno vivendo. Quando avvertiamo la paura, la prima cosa a cambiare è la nostra fisiologia: il respiro, la frequenza cardiaca in primo luogo. Partendo dal respiro possiamo riportare a regime la nostra condizione fisica. Stilate una lista delle vostre paure per conoscerle meglio. Chiedetevi da dove arrivano e perché. Abbiamo visto che l’infanzia, le abitudini, le persone tossiche, i traumi, le esperienze e i pensieri negativi sono le cause principali. Leggetevi dentro con onestà. Questo è il primo grande regalo che potete farvi. Nella consapevolezza la paura si dissolve, almeno in parte. Ogni volta che sentite che la paura si sta impossessando della vostra mente, pensate a tutto ciò per cui dovreste ringraziare voi stessi. Puntate sugli aspetti positivi, sui pregi, sulle vostre qualità. Fatevi forza di questi aspetti e lavorate per migliorarli e tirarne fuori altri. Create un diario della gratitudine: ogni giorno, scrivete almeno tre cose per cui pensate di dover essere grati a voi stessi. Questa pratica vi aiuterà a essere più sicuri e a rafforzare la percezione positiva di voi stessi. Ricordatevi anche che le paure non sono reali, ma pensieri irrazionali che generate voi stessi con la vostra mente, che voi non siete le vostre paure, non vi ci identificate, portatele alla luce e imparate a riconoscerle. Quando sentite che la paura sta arrivando, provate a fermarvi un attimo, chiudere gli occhi e respirare profondamente. Immaginate e usate la visualizzazione per vedere voi stessi nella situazione che temete, immaginate di affrontarla positivamente, calmi, rilassati e soddisfatti, perché tutto sta andando nel verso giusto. Questo semplice esercizio ricondizionerà la vostra mente e vi infonderà un maggiore ottimismo nei confronti del futuro, ridimensionerà la paura fino a renderla inoffensiva. Trova te stesso Quando nella vita sei te stesso hai già vinto. Questo capitolo potrebbe finire qui, perché questo è il punto nodale dell’argomento in questione. Nel 2012 ero pronto a lasciare l’Italia per fare rotta verso il Canada, dove mi si prospettava una carriera forense di rilievo. Nel nostro Paese, siamo pochissimi ad avere un’ultra-specializzazione in scienze identificative forensi, ma la mia carriera non decollava, non mi sentivo gratificato né tanto meno remunerato abbastanza. Il mio immenso amore per la ricerca e per l’università era poco ricambiato, per così dire. Le evidenti difficoltà mi lasciavano perplesso sul futuro e ancor prima sul presente. In quel periodo passavo ore in piscina e palestra ad allenare giovani apneisti che venivano a trovarmi desiderosi di diventare campioni a loro volta. Come sempre, in questo campo bruciavo di entusiasmo. Condividere la mia esperienza aggiungendovi l’apporto della competenza medica mi permetteva di trovare risposte che nel mio modo di vivere l’apnea erano state assenti. Prima di essere un lavoro, quello di allenatore era una passione, maturata dal bisogno di continuare ad avanzare nel mio sport, ma in modo differente. E stavo riscuotendo un certo successo, anche perché, lavorando in università potevo cercare soluzioni fondate su dati medici e scientifici impiegando con profitto la mia forma mentis. E, non ultimo, la mia sete di conoscenza era appagata. Ma la valigia per Montréal e Vancouver era pronta. Un piccolo e doveroso inciso: in questa scelta la mia famiglia mi ha sempre sostenuto. In più godevo dell’incoraggiamento del Prof. Paolo Danesino, il mio ordinario di Medicina Legale a Pavia, che per me è stato ed è un secondo padre. Era stato lui a incoraggiarmi prima nel mio master e poi nel dottorato di ricerca. Insomma, ero lì lì per partire. Poi a settembre arriva una telefonata, una di quelle che non si dimenticano. L’allenatore di importanti nuotatori, anzi direi proprio dei veri big, aveva sentito parlare di me, in particolare delle mie qualità di allenatore di apnea. In poco tempo ero riuscito a portare al successo alcuni giovani apneisti, successi importanti, considerato il numero di titoli e record mondiali che avevano stabilito. L’allenatore e il suo team mi invitarono a collaborare con loro per capire come traslare nel nuoto il mix delle mie esperienze mediche e sportive, di atleta e allenatore nel mondo dell’apnea, un mondo fatto di respirazione, mente, silenzi e monopinna. Tre mesi di lavoro coordinato per poi tirare una riga e valutare l’andamento della mia metodica nel nuoto e soprattutto per capire se riuscivamo a creare un feeling di squadra. Poi avremmo potuto considerare l’esperienza in un’ottica di quadriennio olimpico. Il sogno che avevo segretamente nutrito di portare la mia esperienza al servizio di grandi atleti diretti alle Olimpiadi era appena diventato un’opportunità concreta. Disfai la valigia per il Canada e aprii lo zaino da piscina per infilarvi un nuovo paio di ciabatte, pantaloncini e maglietta. Gli eventi precipitavano a rotta di collo. Dopo una manciata di giorni mi chiamò una leggenda italiana della ginnastica artistica, un oro olimpico di fama mondiale che si allenava in apnea, ma nessuno gli aveva mai spiegato come lavorare al meglio in questa condizione. E questo è stato l’inizio del mio presente, in cui posso esprimere tutto ciò che ho maturato, portando la mia esperienza là dove non sarei mai potuto arrivare, ai Giochi Olimpici, che sono ancora un miraggio per il mio sport, ma non per la mia mente. È stato un nuovo inizio. Ho ripreso a studiare, approfondito le mie conoscenze, le ho applicate. Lavorare sodo ogni giorno, imparare, intuire e mettere in pratica. E poi accogliere tanti campioni che sono venuti a trovarmi, a frequentarmi, conoscermi e che mi hanno chiesto di seguirli. Sempre di più e in tempi sorprendentemente rapidi. Ed ecco emergere una nuova versione di me, il coach dei grandi campioni: nuoto, pallanuoto, ciclismo, ginnastica artistica, triathlon, tiro a segno, tiro a volo, motociclismo, rugby, canottaggio, vela… e potrei andare avanti. Tanti sport e soprattutto sportivi eccellenti, per lo più grandi atleti, ori mondiali e ori olimpici. Insieme lavoriamo sui dettagli, migliorando tutto ciò che è migliorabile. I Fantastici 6: il respiro In questi anni ho prestato sempre più attenzione allo studio della respirazione e della sua applicazione nella quotidianità. Non credo che possa stupire: ho fatto dell’apnea la mia vita, pensare al respiro, un elemento cruciale di performance, era inevitabile. Confesso però che il vero potere del respiro mi si è palesato solo dopo la morte di Filippo, quando ho iniziato a soffocare per il lutto, a restare in apnea senza alternative. Non è un modo di dire, il dolore mi ha strangolato. Non è stata una condizione pubblica, forse solo i miei genitori hanno realmente visto quanto soffrissi, conosciuto le mie notti insonni, letto l’angoscia sul mio viso, compreso che il dolore incessante alla bocca dello stomaco mi stava devastando psicologicamente. Non ne ho mai parlato apertamente, avevo paura di mostrare la mia debolezza, fragilità. Avevo terrore di essere giudicato. Proprio così. Non conoscevo l’ansia, ma poi ci ho stretto un rapporto fin troppo intimo. Paura, solitudine, disagio nei confronti della vita erano le sue fonti. In passato mi ero sentito nella mia muta nera una sorta di supereroe, un Batman dei mari. E adesso ero a malapena l’ombra di un uomo. Come tornare in me stesso? Dove trovare la forza di ricostruire un equilibrio? Come gestire il tornado delle mie emozioni e vincere le paure? Tante domande, una sola risposta: respira. Il respiro, il principale strumento di autocontrollo di cui è dotato l’essere umano, il principale regolatore delle emozioni. Lo dicono tutti, da tanto tempo, ma mi domandavo: “Cosa devo fare per renderlo vero?” La risposta è stata ed è semplice. Il percorso per concretizzarla no. Respiriamo tutti quanti, migliaia di volte al giorno, eppure pressoché nessuno usa il respiro per potenziare la mente e per imparare a gestire se stesso. E se vi dicessi che dobbiamo imparare a respirare? Dedico la mia vita alla ricerca del miglioramento della salute delle persone, partendo dalla mia esperienza. In tempi recenti, finalmente, si assiste a un proliferare di ricerche mediche sull’importanza del respiro. Quindi credo che sia giunto il momento di rivelare un segreto. Il segreto dei grandi campioni Non tutti sono addentro al concetto di marginal gains, e ignorano quanto incida sul conseguimento di risultati eccellenti. Un piccolo passo indietro per proiettarci nell’Olimpo dei Campioni, da cui trarremo ispirazione per fare la differenza nella nostra vita quotidiana. Come abbiamo visto, sono le sensazioni e le emozioni che viviamo frequentemente nella vita a generare i nostri pensieri e le nostre azioni. Ma c’è un ma. Il “ma” è costituito dal fatto che ogni stimolo esperito induce un cambiamento dello stato d’animo e di tutto ciò che ne consegue, passando per un’alterazione del respiro che induce quindi un’alterazione del ritmo cardiaco e della risposta neuro-chimica-ormonale. Avere la capacità di mantenere la “lucidità” e gestire il proprio respiro è dunque il segreto dei segreti. Ve lo voglio dimostrare suggerendo un esercizio, che potete fare anche subito: spegnete ogni fonte di distrazione e misuratevi il battito cardiaco; in gergo medico meglio noto come “prendersi il polso”. Attenzione, vietato guardare le pulsazioni sull’orologio. Imparare a conoscersi è la prima vera grande scoperta, dobbiamo “entrare” nella nostra fisiologia e conoscerla a menadito. D’altronde, se compriamo un’auto nuova, vogliamo conoscerne ogni specifica, e magari ci accaparriamo optional superflui. Ebbene, noi stessi siamo forniti di optional di serie che ignoriamo. Tutto sta nel conoscerli e usarli correttamente. Esercizio: Prendere il polso. Tenendo gli occhi chiusi, inspirare per x battiti cardiaci ed espirare per altrettanti x battiti cardiaci. Tenere questo ritmo per circa due minuti. Aprire gli occhi e scrivere almeno tre sensazioni percepite. 1. 2. 3. Con questo esercizio dovreste ottenere cinque effetti fisiologi indotti dalla respirazione: Aumento dello stato di relax (avete aperto gli occhi alla fine dell’esercizio e il vostro stato emotivo è diverso da quando l’avete iniziato). Aumento della concentrazione (siete molto focalizzati sul sentire il battito, può essere vi siate distratti, ma dopo essere tornati sul respiro eravate di nuovo concentrati). Diminuzione delle interferenze interne ed esterne (mettendo da parte le vocine che ci disturbano dentro e fuori di noi). Diminuzione della frequenza cardiaca (si sente che il battito rallenta, vero?). Diminuzione della pressione arteriosa (pare quasi di non avvertire più il cuore). Bene, tutto questo è la forza del respiro: molti, forse, la conoscono, ma davvero pochi la sanno utilizzare. Quindi, se le emozioni sono il motore che spinge ogni nostro comportamento, e pertanto rappresentano la causa di ciò che facciamo (o non facciamo), i comportamenti ne sono l’effetto, cioè rappresentano il mezzo attraverso il quale esprimiamo le nostre emozioni. Lavorare sulla nostra fisiologia e sulla respirazione è la leva più importante e immediata in questo senso, ci permette di creare un cambiamento immediato nelle emozioni e nei comportamenti. Con “fisiologia” intendo dire l’insieme delle funzioni vitali che possiamo e dobbiamo regolare al meglio. Ma come? A partire dal respiro per poi andare a lavorare su quelli che ho chiamato “i Fantastici 6”. Abbiamo due fisiologie di riferimento: una virtuosa e una viziosa. In quale vogliamo identificarci? A noi la scelta, ma anche l’operatività! Aspirando alla nostra eccellenza abbiamo l’opportunità di lavorare per ottenere una fisiologia più costruttiva, efficiente. Nessuno nasce campione, ma tutti abbiamo un talento, più o meno evidente, tutti abbiamo delle potenzialità. Il primo strumento per portarle alla luce è il nostro respiro. Tutto ciò che occorre fare, è allenarsi, ripetere e rifarlo ancora fino allo sfinimento, fino a quando ci accorgiamo che abbiamo colto il tassello in più, e udiamo il famoso click. Da quel momento in poi diventa tutto un po’ più facile. È un processo di tutto riposo? No, ma è fattibile, sempre fattibile. Vediamo in quanti modi e per quali scopi. 3.6.5 – Self Confidence Questo tipo di ciclo respiratorio è a oggi riconosciuto come la miglior tecnica esistente nel controllo della coerenza cardiaca (HRV). Consiste nel: ritagliarsi tre momenti all’interno della giornata, a distanza di circa 3-4 ore l’uno dall’altro; respirare modulando sei atti respiratori al minuto, il che significa avere per ogni atto respiratorio 5 secondi di inspirazione e 5 secondi di espirazione; mantenere questo ciclo respiratorio per 5 minuti; l’atto respiratorio dev’essere modulato solo attraverso il naso. I benefici si ottengono grazie a una regolarizzazione del sistema nervoso autonomo, simpatico e parasimpatico, e grazie al miglioramento dei parametri dell’HRV. 1 : 2 Making Decision In questa modalità si cerca di prolungare la fase di espirazione per un tempo circa doppio rispetto all’inspirazione. Pertanto se si contano 3/4/5 secondi di inspirazione bisogna focalizzarsi su un’espirazione della durata doppia, pari pertanto a 6/8/10 secondi. L’obiettivo è indurre uno stato di rilassamento superficiale e nel caso anche profondo: suggerisco un’inspirazione nasale ed e un’espirazione attraverso la bocca. Sono sufficienti due minuti, ma anche meno, per avvertirne i benefici immediati. 2 : 1 Self Empowerment L’inversione del ritmo respiratorio, con un aumento dei tempi nella fase di inspirazione rispetto a quelli dell’espirazione, porta a uno stato di attivazione. In questo specifico caso è normale poter sperimentare sensazioni intense, con un’accelerazione del battito cardiaco e un immediato senso di “risveglio” con lieve formicolio e anche capogiro. In questa specifica situazione sono sufficienti meno di 30 secondi per avvertire il beneficio immediato. Anche in questo caso, suggerisco una inspirazione nasale e un’espirazione boccale. Quelli sopra elencati rappresentano una serie di esercizi base, semplici, che opportunamente allenati, aiutano a gestire i diversi aspetti mentali legati alla performance. Sono oggi riconosciuti come quelli che offrono risultati sull’HRV, a livello del sistema nervoso autonomo, orto e para-simpatico, e a livello centrale. Non vi è alcun tipo di controindicazione, anzi i benefici normalmente sono percepibili anche sulla breve distanza: il fattore discriminante come sempre è la risposta biologica individuale. Pertanto, fornisco di seguito dati relativi ai layout di lavoro: il mio suggerimento è sempre quello di compiere gli esercizi monitorandosi attraverso tracker specifici, dai più semplici (come i braccialetti che rilevano la frequenza cardiaca o l’anello Oura Ring) ai più evoluti e professionali (come la biofeedback, il pletismografo e correlati). In questo modo si ottiene una qualità di lavoro più specifica e mirata. Non è necessario praticare gli esercizi per ore, bastano pochi minuti, magari ripetuti anche più volte durante la giornata. Noterete che sono sufficienti per agire sullo stato e sulla funzionalità cerebrale. Il cambiamento del respiro esercita il suo effetto sulla distribuzione delle onde cerebrali inducendo una transizione da una prevalenza di onde beta, tipica espressione di una normale funzionalità cerebrale, a una maggiore espressione di onde alfa (calma focalizzata), fino alle onde theta (calma profonda e pace). Con questi transitori cambiamenti dello stato cerebrale, il cervello “apprende” come passare con agilità a specifiche condizioni desiderate, anche quando non lo si sta allenando tramite la respirazione. È come in palestra: quando ci alleniamo, nell’immediato abbiamo uno sviluppo fisico, ma sulla lunga distanza otteniamo un cambiamento di tratto del corpo, cioè diventiamo per esempio più forti o robusti anche quando non ci stiamo allenando. La respirazione opera allo stesso modo. Non demoralizzatevi se all’inizio i pensieri che cercherete di tenere fuori, invaderanno con forza la vostra mente distraendovi anche più volte. È perfettamente normale, e la ricerca ha provato che questo non compromette i risultati. Al contrario, che ci sia una tendenza alla distrazione e uno “sforzo” a riconcentrarsi sulla respirazione è funzionale allo scopo. È così che otteniamo l’eccellenza: Respirazione – Fisiologia – Stato Emotivo – Performance. Se respiro, posso La vita è un viaggio incredibile e noi siamo i comandanti del vascello, liberi di decidere dove dirigerci e come viaggiare. Possiamo nutrirci dei nostri sogni e delle nostre speranze, circondandoci di amore, osservando la bellezza che ci sta attorno ogni giorno, cogliendo il lato positivo di tutto ciò che succede e, se non lo vediamo subito, cercando di trovarlo. Allontaniamoci dalle persone che ci fanno male, non regaliamo tempo a chi non ce ne dedica a sua volta, usiamo il sorriso e la gentilezza per affrontare le nostre giornate, e poi, ogni volta che dobbiamo liberarci, piangiamo e urliamo senza vergogna. Facciamo del cambiamento un’occasione e una possibilità di rinnovamento e ricordiamo sempre che la vita è sì difficile, ma anche immensamente bella. È sempre questione di prospettiva. Non molti anni fa, durante una mia profonda crisi esistenziale, avevo perso completamente la rotta, mi sentivo fortemente disorientato, vittima del giudizio altrui. Dopo essermi perso, mi sono ritrovato più forte di prima. Sono fermamente convinto che “i Fantastici 6” siano gli elementi base per vivere una vita da vero campione, insieme alla la piena consapevolezza che basta davvero poco per smarrirsi, mentre molto occorre per costruirsi. Diventare più forti dentro ci aiuta a vivere la vita nella sua pienezza anche nei momenti bui e tristi, quei momenti in cui ti senti davvero impotente. Nelle circostanze più dure, ridimensioni le tue priorità, scopri la tua identità e le vere relazioni. A me è successo proprio questo. Adattarsi come fa l’acqua del mare vuol dire vivere con intensità ma anche con leggerezza. Il mare mi ha insegnato a muovermi lentamente ma inesorabilmente come un’onda, cristallino in superficie e profondo nell’anima, senza mai perdere l’energia. Partendo da me stesso posso costruire la vita che desidero, perché se respiro, posso. Per essere aggiornato sulle ultime novità visita il nostro sito www.roiedizioni.it e seguici su Facebook